Omelia del vescovo Marco nella Festa della Santa Famiglia con l’apertura del Giubileo diocesano della Speranza nel Sangue di Cristo – Basilica di Sant’Andrea, Santuario del Preziosissimo Sangue,
29.12.2024
Lezionario biblico: 1Sam 1,20-22.24-28; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52
“Fiamma viva della mia speranza”
L’inizio del Giubileo della Speranza nelle Diocesi coincide con la Festa della Santa Famiglia di Gesù. Maria e Giuseppe sono “due complici” della speranza che non delude. Si sono fidati di Dio che ha progetti di pace e non di sventura (Ger 29,11). Un coraggio a due nell’assumere la missione che Dio ha loro affidato. Erano giustissimi: lei è detta Vergine fedele e lui uomo giusto. Giusti secondo la giustizia dell’amore superiore alla giustizia della legge. Secondo le disposizioni data da Mosè, una vergine trovata incinta era una infamia in Israele e doveva essere lapidata (cfr. Dt 22,20-21). Pur di adempiere al compito di generare il figlio deposto nel suo grembo, Maria è disposta ad essere un’infamia, il male in mezzo al suo popolo. E Giuseppe è al suo fianco, suo alleato nella missione, non teme di prenderla con sé e di aver cura della madre e di suo figlio. È curioso come la fedeltà dei giusti implica una trasgressione illuminata dallo Spirito Santo e guidata dai messaggi degli angeli. Essere coerenti con il Signore non è questione di aritmetica legalista, ma di fedeltà alla sua volontà e di fiducia nelle sue ispirazioni. Poi i due tornano fedelissimi alla legge: dopo otto giorno dalla nascita portano Gesù al tempio per gli adempimenti di legge e, successivamente, ogni anno, salgono insieme a loro figlio a Gerusalemme per il pellegrinaggio di Pasqua.
Questa coppia di coraggiosi nella speranza è caduta in una svista; forse è stato sufficiente un momento di distrazione per perdere il colpo d’occhio sulla situazione e per “perdere” Gesù dodicenne. Con chi è? Con la madre e le donne? Insieme al padre e agli altri uomini? Passa del tempo prima di accorgersi che lui è rimasto a Gerusalemme e poi trascorrono altri tre lunghi giorni di ricerca angosciata finché lo trovano tra di dottori del tempio, al suo posto. Dove doveva essere se non a occuparsi delle cose del Padre suo?
Ai genitori di oggi questo brano evangelico ricorda che la forza di una coppia non è nell’essere impeccabili ma nell’essere insieme a educare i figli. “Tuo padre e io ti cercavamo”, sono le parole di Maria a Gesù, accompagnate da un sentimento di incomprensione misto a stupore per questo figlio fuori dal comune che continua a “spiazzarli”. Capita spesso ai genitori con figli preadolescenti e adolescenti, in pieno travaglio generazionale di sentirsi inferiori al compito; faticano a trovare le parole e i mezzi efficaci per educare alla vita buona e matura questi figli in crescita. L’episodio contiene un messaggio anche per i ragazzi di questa età, “esploratori della vita”, che chiedono autonomie, ma ancora abbisognano di dipendere per apprendere a “farsi le ossa”. Dopo la sua avventura in solitaria per le strade di Gerusalemme e nel tempio, Gesù torna a casa e si dice che stava “loro sottomesso”, da non interpretare nel senso peggiorativo come se fosse “soggiogato” a loro, quanto piuttosto nel senso che “questi” genitori, non sempre perfetti, li riconosce come i suoi punti di riferimento autorevoli, gli alleati principali della sua crescita in età sapienza e grazia.
Talvolta i figli sono in rotta di collisione coi genitori, avvertono che c’è conflitto, poca sintonia, e questo li fa soffrire, lascia un certo senso di “abbandono”, di percepirsi soli. I genitori si lamentano, li vorrebbero “diversi”, meno esigenti. Ma quando i figli “dodicenni” fanno lo stress-test ai genitori, può essere, che usano questo “mezzo trucco” per verificare fino a che punto i genitori li hanno a cuore, sono attenti ai particolari, sanno intuire cosa li inquieta e cosa li rallegra.
Ai genitori fa bene ascoltare le parole di Anna, la madre di Samuele, e farle diventare proprie. Consapevole che quello che le è nato è un figlio richiesto al Signore, frutto di speranze e preghiere, felice per la sua nascita che è una sorta di miracolo, questa mamma non ha che un obiettivo sul figlio: “condurlo a vedere il volto del Signore”. Questa è la speranza di tutti i genitori cristiani: accendere vite biologiche destinate a consumarsi entro un tot di anni è una prospettiva davvero disperante; ne sanno qualcosa i genitori che sopravvivono alla morte prematura dei figli. Diversa è la speranza cristiana che anima i genitori consapevoli di essere collaboratori di Dio Padre e Creatore nel concepire vite umane chiamate a diventare vite di figli e figlie di Dio, destinati a vederlo così come egli è, ad essere simili a lui nella vita piena del Paradiso. Credo che la grave questione della denatalità non sia legata solo all’egoismo culturale diffuso, ai costi economici, alla mentalità del figlio-impegno più che del figlio-risorsa, ma anche alla mancanza di un orizzonte di vita eterna in cui concepire e dare alla luce bimbi che possano crescere in età, sapienza e grazia.
Con questa frase sintetica, il Vangelo traccia un programma di educazione integrale, di tutta la persona: corpo, mente e spirito. Come fare a realizzarlo? Il racconto ci lascia un indizio. La famiglia di Gesù vive in due luoghi e due tempi: la casa di Nazareth, dove si svolge la vita quotidiana, ci si occupa del lavoro e degli affetti, e poi il tempio di Gerusalemme, la casa di Dio, cioè i tempi delle grandi feste - come quella di oggi -, l’esperienza del pellegrinaggio insieme a tutto il popolo, per occuparsi delle cose di Dio, dedicarsi alla spiritualità e al culto. La forza e l’equilibrio di una famiglia sta nel tenere insieme Nazareth e Gerusalemme, l’ordinario e lo straordinario, i tempi di lavoro e i tempi della festa, l’intimità della casa e lo stare in mezzo alla folla sentendosi parte di un popolo. Non è a Nazareth che “restiamo” poco. É l’esperienza di stare nel tempio che spesso viene a mancare, con le grandi salite dello spirito, l’esperienza comunitaria della preghiera, le intuizioni forti che danno anima ai giorni feriali.
Il Giubileo della Speranza sarà una grazia particolare per le famiglie. Parecchie vivono criticità di coppia e problematiche genitoriali. Fanno fatica a ripartire dopo i conflitti e alcune spaccature paiono insanabili. Occorre apprendere un’arte del rammendo familiare per far vincere la speranza sulla rassegnazione, per tornare a parlarsi senza accusarsi, a saper prendere l’iniziativa del primo passo e cicatrizzare vecchie ferite perché non alimentino il risentimento. L’anno giubilare può rappresentare un tempo di grazia per portare a compimento le promesse di bene ancora “sospese” da parte di coppie di cristiani che si trovano nella convivenza ma che possono portare a compimento la loro unione con la benedizione sacramentale. Il sacramento non è una magia ma è la speranza che un amore di coppia può compiersi in Dio nelle alterne vicende della vita. Anche per le coppie che non ce l’hanno fatta a ripartire, il Giubileo rappresenta una grazia di speranza. Ai separati divorziati in seconda unione è possibile intraprendere un cammino penitenziale per riconciliarsi e reintegrarsi maggiormente nella comunità cristiana, accompagnati da sacerdoti e laici incaricati e preparati. La grazia del Giubileo anche entrerà nelle nostre case, specie per malati, disabili e anziani che non potranno recarsi fisicamente in pellegrinaggio nelle chiese giubilari; avverrà in più modi: attraverso i parenti (ad esempio i nipoti con i nonni) che recitano le preghiere del Giubileo insieme a loro; attraverso la visita dei ministri della comunione e consolazione e dei catechisti/educatori alla fede che portano la benedizione giubilare alla famiglia; ma anche attraverso un pellegrinaggio virtuale in Sant’Andrea che proporremo attraverso i social nel tempo di Quaresima.
Come la Santa Famiglia, anche noi all’inizio del Giubileo abbiamo compiuto il segno del pellegrinaggio che è culminato nella venerazione del Crocifisso, l’Amico fedele appeso al legno della croce, con il costato trafitto, quasi fosse la breccia per ritornare a casa nel cuore del Padre. Lì, dal trono paradossale del suo sacrificio, Gesù ci ha manifestato chi è Dio. Spesso le bestemmie, più che espressioni volgari e lesive dell’onore dovuto a Dio, sono quelle convinzioni e immagini distorte che ci siamo fatti su Dio sfalsando la verità del suo essere. Infatti, san Giovanni dice “il mondo non ci conosce” perché non vede che siamo figli di Dio e che lo siamo realmente perché Dio è un Padre, è il Padre di Gesù e il nostro Padre che ci trasforma in figli.
Al termine della processione abbiamo acclamato più volte davanti alla Croce: “Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno”. Gesù è la nostra grande speranza, quella “ultima” per il Giorno del Signore, quando ci affideremo a lui come alla nostra àncora di salvezza per entrare sicuri e beati nel Regno eterno del Padre. Ma Gesù sostiene anche le nostre speranze penultime: è con noi nelle ore delle decisioni importanti, del successo e della prova, quando speriamo in una guarigione, nel miglioramento di una situazione, quando speriamo di trovare una soluzione, di ricomporre un rapporto, di portare a termine il nostro compito. E siccome nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio, la speranza non delude perché Gesù rimane con noi sempre. Gesù non è nel passato, Gesù è vivente ora. Rimane con noi grazie allo Spirito che ci ha donato, rimane con noi nel corpo e sangue dell’Eucaristia che ci riconcilia con Dio Padre e ci rappacifica tra noi, rimane con noi grazie al segno del suo vero Sangue sgorgato dal costato e caduto sulla terra del Calvario. Questa insigne Reliquia è custodita nella Basilica di Sant’Andrea che oggi è eretta a Santuario e sarà meta dei nostri pellegrinaggi giubilari. Si potrà accedere frequentemente alla Cripta che è il cuore del Santuario, il sacrario della Reliquia, avvolto da un clima di silenzio, preghiera, rispetto, venerazione.
Il pellegrinaggio, che è uno dei segni giubilari insieme all’indulgenza, implica di metterci in viaggio e di rimanere pellegrini lungo tutta la vita, alla ricerca di un habitat più vero, più nostro, perché la casa di tutti i giorni non ci basta, solo quando siamo nella casa del Signore ci sentiamo a casa. Lo abbiamo cantato al ritornello del Salmo: “Beato chi abita nella tua casa, Signore”. Saliamo al santuario del Signore per poi tornare, in comunione con Lui, sulle strade ordinarie. Saliamo in carovana sinodale, come l’unico popolo che nei raduni solenni – come è il nostro oggi – manifesta l’unico Signore a cui apparteniamo e che serviamo. Staccarsi dalle abitudini della vita quotidiana è anche il senso del “fratello laico” del pellegrinaggio che è il turismo religioso. Masse di gente accorrono a vedere cose nuove, cose belle custodite negli scrigni delle chiese. É già un inizio, una soglia di interesse e di apertura dello spirito. La visita turistica in sant’Andrea ci auguriamo possa portare non solo qualcosa di diverso ma la grazia di “sentirsi diversi” in questo luogo o quanto meno di desiderare di vivere diversamente. Non sarebbe sufficiente ammirare un luogo bello come questo santuario se quest’esperienza estetica non ci mette in marcia nella direzione del Dio vivente per ritrovare un’armonia interiore e le condizioni di una vita “più bella”.
La voglia di cambiare accomuna tante persone. Molti sentono il peso di una vita sbagliata o compromessa e restano privi di speranza: “ormai non cambio più”, questa è per loro la sentenza finale. É vero che ogni sbaglio ha delle conseguenze penose. Non a caso Maria rimprovera Gesù dicendo che con Giuseppe lo cercavano “angosciati”, quella svista era costata loro un’ansia bruciante. Anche noi portiamo gli strascichi che il male e i peccati lasciano impressi in noi. Desideriamo cambiare: è una intenzione buona! Chiediamo il perdono di Dio e lo otteniamo subito, basta esprimere un pentimento sincero e riconoscere i nostri sbagli e peccati. Però in noi rimangono le vecchie inclinazioni e le abitudini cattive si fan sentire. Non basta voler smettere di fumare per vincere il vizio! C’è un “lavoro da fare” su noi stessi per cambiare, un lavorio che i cristiani chiamano “fare penitenza”, non è una parola negativa o sorpassata; al contrario. Gli antichi dicevano che la “penitenza è figlia della speranza” (Sant’Efrem il Siro), significa che tu non coincidi con i tuoi sbagli, sei più grande dei tuoi peccati e Dio userà anche il tuo passato cattivo per trarne un frutto di miglioramento.
Non siamo soli in questo cammino di conversione. Siamo dentro il Corpo di Cristo, che è la Chiesa, siamo membra gli uni degli altri. Siamo tutti collegati e l’influsso benefico delle preghiere e delle opere buone di uno concorre al bene di tutti. Questo è il senso dell’indulgenza: la Chiesa intercede per te, ti aiuta nel tuo cammino penitenziale per lottare contro il male e vincerlo nel “Sangue dell’Agnello” che toglie il peccato del mondo. Proponiamoci di riscoprire, lungo quest’anno giubilare, la grazia del pentimento per poi tornare a celebrare il sacramento della Riconciliazione, possibilmente in maniera più profonda, attivando un cammino interiore di revisione di vita illuminata dalla Parola di Dio e accompagnata dalla Chiesa.
Per finire desidero affidare un’intenzione comune a tutta la nostra Chiesa mantovana. Maria e Giuseppe hanno fatto l’esperienza di perdere Gesù. Anche le nostre comunità non possono assistere passive al fatto di “perdere” fratelli e sorelle, di vederli smarrirsi in sentieri nocivi. Non dobbiamo rassegnarci a perdere la loro presenza nella liturgia e nella vita comunitaria. Non intendo esprimere un giudizio morale sulle scelte libere di ciascuno in materia religiosa, ma l’amore cristiano soffre e si dispiace se i fratelli perdono l’amicizia col Signore e la gioia dello Spirito Santo, almeno nelle espressioni visibili e comunitarie.
Cari fratelli e sorelle, approfittiamo della grazia del Giubileo e dei tanti momenti di grazia a cui potremo partecipare nelle assemblee diocesane, nei pellegrinaggi comunitari e nei vari giubilei di categoria. Sentiamoci tutti missionari di speranza. Durante la processione introitale i nostri ragazzi hanno portato le nuove lampade e le hanno deposte sull’ottagono, mentre il coro cantava l’inno giubilare: “Fiamma viva della mia speranza”. La speranza è umile e contagiosa. Proponiamoci in questo anno giubilare di accendere ogni giorno piccole speranze nei nostri ambienti di vita; saranno più caldi, più lieti, più luminosi, più trasparenti dell’amore di Dio.