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Giacomo 4,1-10 Vita cristiana; umiltà

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Parrocchia di Ognissanti - 24 marzo 2022

Giacomo 4,1-10

Nel capitolo 4 la Lettera di Giacomo continua il discorso sulle passioni e sulle contese, che abbiamo già trovato in passi precedenti. L’apostolo insiste proprio sulle contese, sulle liti, sulle divisioni che possono nascere all’interno delle comunità a causa delle passioni.

4,1Da dove vengono le guerre e da dove le battaglie tra di voi? Non forse da qui, cioè dalle passioni vostre che combattono nelle vostre membra? 2Desiderate e non riuscite ad avere, uccidete e invidiate eppure non potete ottenere, combattete e fate guerra; 3non avete perché non chiedete, chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere nei vostri piaceri. 4Adulteri! Non sapete che l’amore per il mondo è inimicizia verso Dio? Chi, dunque, vuole essere amico del mondo si fa nemico di Dio. 5O pensate che invano la Scrittura dica: fino alla gelosia Dio predilige lo Spirito che ha fatto abitare in noi? 6Non solo egli dà una grazia maggiore; per questo dice: Dio resiste ai superbi; ma agli umili dà grazia. 7Sottomettetevi, dunque, a Dio; resistete al diavolo, e si allontanerà da voi. 8Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi. Purificate le mani, o peccatori, santificate i cuori, o persone che avete l’animo doppio. 9Lamentatevi e affliggetevi e pregate; il vostro riso si muti in tristezza e la gioia in abbattimento. 10Umiliatevi davanti al Signore ed vi esalterà.

È un autentico invito penitenziale quaresimale; è un testo, infatti, che la liturgia ci propone proprio nel tempo di Quaresima, come invito al cambiamento profondo del cuore. Alcune note sono pesanti; l’apostolo Giacomo ha un po’ questo stile della forza e della sottolineatura radicale. Potrebbe essere un po’ duro questo linguaggio, tuttavia può essere utile per la nostra formazione.

v1. Da dove vengono le guerre e le battaglie tra di voi? Non forse da qui, cioè dalle passioni vostre che combattono nelle vostre membra?

È un inizio, in grande stile, sembra rivolto ai potenti di questo mondo, di grande attualità. Fare guerre e combattere battaglie non è da noi; sono i grandi generali, i capi degli stati che organizzano queste cose. L’apostolo, invece – anche se adopera immagini potenti, di guerra – qui intende parlare delle nostre liti, delle nostre divisioni, dei problemi che segnano le nostre comunità, delle piccole e grandi battaglie. L’apostolo si chiede: “Da dove nascono tutte queste controversie?”. La sua risposta è netta: dalle passioni, dai nostri istinti, dai nostri desideri, dalle nostre voglie, e da queste nascono la bramosia, il desiderio di avere, di dominare, al punto – dice – che fate guerra, invidiate e uccidete. Succede sempre più spesso che ci siano delle persone che fanno violenza ad altri al punto di ucciderli, per avere un vantaggio su qualcosa. Questa violenza – così, alla lettera – può non riguardarci, però ci può riguardare una invidia di fondo che porta ad uccidere l’altro moralmente, non considerandolo, disprezzandolo, lasciandolo perdere e la causa è nel fatto che non riusciamo a ottenere quel che vogliamo.                                                                                                                                                                      

v.2A Desiderate e non riuscite ad avere, uccidete e invidiate eppure non potete ottenere                                                                                                

Che cosa davvero vogliamo o desideriamo veramente? Uno dei desideri più diffusi è il primeggiare, far carriera, avere i posti più importanti, comandare. È vero! I grandi capi dicono che dobbiamo essere umili, ma, per rimanere in ambiente ecclesiastico: c’è mai stato un vescovo di una grande diocesi che poi è andato a fare il vescovo di una piccola? Mai successo! Si comincia con la piccola, poi si va a quella media e poi si arriva a quella grande. Più semplicemente per noi: cerchiamo di andare a stare meglio, cerchiamo di avere più potere, di avere qualche cosa di più grande, di più bello, di più ricco, di più sicuro e così via. Questa mania del volere sempre di più domina il mondo; siamo vittime della bramosia del tendere al di più; tendere non al meglio morale, ma al più potente, al più grande, al più comodo, al più ricco. In genere questa bramosia tende a raggiungere quello che soddisfi di più il nostro orgoglio, che accontenti la nostra vanità, che ci faccia sentire più importanti. A parole, siamo sempre, sicuramente tutti umili. Più si è in alto e più si dice di essere umili… a parole. Le parole non costano nulla, anche nella Chiesa.                                     

L’apostolo Giacomo è duro perché si rende conto che anche nella Chiesa c’è molta sporcizia; questa sporcizia è una spazzatura del cuore: le guerre vengono fatte anche all’interno della stessa Chiesa. Ad esempio, è trapelato in tanti modi che cosa succede in Vaticano, non solo in ambito economico, ma anche morale o ecclesiale, come la scelta dei vescovi. È il cruccio di Papa Francesco. Laddove diamo questa impressione è difficile poi comunicare il Vangelo; è difficile parlare di servizio e di umiltà, quando diamo l’impressione di combattere per i primi posti. Ovviamente, a maggiore ragione, questo riguarda, in ambito civile, la guerra in atto in Ucraina.

v.2B combattete e fate guerra

Si fanno guerre, battaglie, si combatte non per raggiungere grandi ideali, per realizzare qualche progetto grandioso, per combattere contro il male o mettersi contro le strutture corrotte, ma, semplicemente, per fare polemica. “Polemica” è una parola che deriva dal greco ‘pólemos’, che significa guerra. ‘Polemico’ è uno che fa la guerra. Giacomo ribadisce: siete persone polemiche, litigate volentieri, contestate perché non avete ottenuto quello che volevate, non avete il coraggio neanche di ammettere quello che volevate e, non avendolo ottenuto, finite per essere arrabbiati contro il sistema perché vi ha deluso. Sono atteggiamenti in cui si può cadere. La polemica e l’abbattimento sono due condizioni negative, il risultato di una cattiva impostazione, di una mancanza di preghiera autentica e sincera. La preghiera non è la recita di orazioni, ma è la profonda relazione del cuore con Dio, ma in genere la relazione c’è quando si sta zitti e si ascolta. Tutte le formule che usiamo possono servirci per formare, educare, istruire, ma il dialogo autentico e profondo è nel cuore silenzioso (San Giuseppe).

v.3 non avete perché non chiedete, chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere nei vostri piaceri.                                                                                              

Per che cosa combattiamo? Che cosa bramiamo? Non possiamo pensare di non bramare niente, che ci va bene tutto; magari fosse vero. Bramosie e insoddisfazioni le abbiamo tutti. Ci sono delle frustrazioni, cioè degli atteggiamenti in cui uno riconosce di avere fatto delle cose per niente, invano – “frustra” in latino –; si rende conto che quello che ha fatto non è servito a niente. Ma a cosa doveva servire? Che cosa cerchiamo e non troviamo? L’apostolo dice che… non è vero che basta chiedere per avere, bisogna anche saper chiedere bene e chiedere cose buone, altrimenti il Signore non ascolta, qualunque cosa chiediamo. Abbiamo fatto troppa forza sul detto evangelico “chiedete e otterrete”, dimenticando l’insegnamento del contesto, in cui Gesù intendeva dire: “chiedere lo Spirito Santo”, chiedere il bene di Dio, chiedere di realizzare il suo progetto. In realtà, invece, chiediamo quello che ci fa più comodo, quello che ci interessa, ma non sempre è bene quello che chiediamo. “Non ottenete perché non chiedete”; “Io chiedo sempre al Signore, però non ottengo”. “Non ottieni proprio perché chiedi male”. Se chiediamo cose buone, in modo buono, sicuramente le otteniamo, perché è quello che vuole anche Dio, che è sommamente buono; ma se non corrispondiamo a questo, se non chiediamo da buoni, se non chiediamo cose buone…, non otteniamo e, non ottenendo, sentiamo frustrazione, abbattimento, rabbia, delusione, demoralizzazione, depressione, stanchezza, noia…, che è un po’ la malattia del nostro tempo: quante volte diciamo o sentiamo dire:“Non ne ho più voglia”.                                                                                                         

C’è una barzelletta interessante: Due amici vanno al ristorante e ordinano pesce; il cameriere porta loro due pesci, uno grande e bello, l’altro piccolino. Dal momento che è difficile dividere, non sapendo come fare, cominciano a dire ripetutamente l’un l’altro “scegli tu per primo”. Dopo un lungo tira-e-molla uno dei due sceglie e si prende il pesce più grosso. L’altro ci rimane male e protesta: “Sei stato egoista e scorretto – dice – se avessi scelto io, per educazione avrei preso il più piccolo!”. E il suo amico gli risponde: “Perché ti lamenti? Hai proprio quello che avresti scelto!” ...                                                                        

Le cose spesso vanno proprio in questo modo: tanta educazione formale nasconde l’intento di ottenere ciò che si vuole, senza dirlo esplicitamente.

È un tipico esempio di falsa modestia: “Io sono l’ultimo, non valgo niente”, ma se poi mi mettono all’ultimo posto, allora mi arrabbio. A volte chiediamo male perché siamo dominati dall’amore per le cose terrene, per i nostri piaceri, i nostri comodi, il nostro interesse. Al contrario non chiediamo di essere più vicini al Signore, più ricchi di fede, più capaci di amore, ma chiediamo per avere qualche cosa, per la nostra comodità o per il nostro interesse. Spesso, anche inconsapevolmente, facciamo sì che la volontà di Dio si confonda con la nostra. “Sia fatta la tua volontà” diciamo nel Padre nostro.                                                                           Lo dice molto bene Alessandro Manzoni ne I promessi sposi quando racconta di donna Prassede, una signora di Milano molto devota, molto generosa, che fa tutto per compiere la volontà di Dio; soltanto che – dice l’autore – confondeva il cielo con la sua testa ed era convinta che la sua testa coincidesse con il cielo. Tutto quello che le passava per la testa era la volontà di Dio, per cui si impegnava a farlo fare anche gli altri. Certo! Aveva anche parecchie figlie, alcune suore e altre sposate e lei – povera donna – aveva da combattere contro dei generi e contro delle superiore, perché non solo comandava alle figlie, ma doveva comandare anche ai mariti delle figlie e alle superiore religiose dei conventi dove erano le figlie. Erano quindi tutte battaglie non dichiarate, ma combattute quotidianamente. Pensate che fatica – povera donna – combattere tutte queste battaglie: naturalmente per fare del bene. Ma certo, sempre per fare del bene. Quando le capita fra le mani Lucia comincia a farle del bene e continua a rimproverarla perché parlava a quel poco di buono di Renzo e – per farglielo passare di mente – gliene parlava tutti i giorni. È una satira forte contro le brave persone di Chiesa, che fanno tutto per bene, ma sono delle polemiche, che combattono contro tutti, che vogliono quel che vogliono loro e confondono il cielo con la propria testa. Gli amici di Dio vincono la superbia.

v.4 Adulteri! Non sapete che l’amore per il mondo è inimicizia verso Dio? Chi, dunque, vuole essere amico del mondo si fa nemico di Dio!            

v.5 Dio predilige lo Spirito che ha fatto abitare in noi, fino alla gelosia.                                                    

V. 6 Non solo, Egli ci dà una grazia maggiore, per questo la Scrittura dice: “Dio resiste ai superbi, ma agli umili fa grazia”.

Chi vuole essere amico del mondo si fa nemico di Dio: in questo atteggiamento – dice Giacomo – si diventa adulteri, si tradisce la fedeltà al Signore come unico sposo, perché ci interessa più l’altro sposo, che è il mondo. Queste citazioni fanno riferimento probabilmente a un testo biblico di Osea, dove si parla dell’amore appassionato con cui il Signore si lega al suo popolo, e aggiunge: “Dio, non solo ama appassionatamente la persona, ma la vuole per sé e non accetta di essere tradito. Dice ancora che Dio dà una grazia maggiore agli umili, mentre resiste ai superbi, usando una esplicita citazione dei Proverbi: «Dio resiste ai superbi; agli umili invece dà la sua grazia» (Pr3,34). A quelli che sono convinti di essere padroni, capi, che hanno ben chiara qual è la volontà di Dio, Dio resiste, come resiste al fariseo. Invece agli umili che sono sinceri, che riconoscono di non sapere, di non essere capaci, Dio dà tanta grazia (pensiamo a Maria: piena di grazia). Al contrario, la falsa umiltà, per Dio diventa superbia. Non possiamo ingannare Dio, perché capisce subito se non siamo umili…, e di conseguenza non concede la sua grazia.                                  

A questo punto Giacomo dà alcuni consigli pratici:

v.7 Sottomettetevi a Dio; resistete al diavolo, e si allontanerà da voi.

v.8A Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi

Sottomettersi a Dio per non confondere Dio con la vostra testa, non pretendere di fargli fare quello che voi avete in testa. Il diavolo parla facilmente attraverso le nostre bramosie, attraverso i nostri gusti, le nostre voglie, i nostri istinti. Resistendo, si allontanerà da noi. Avvicinarsi a Dio significa essere disponibili ad accoglierlo; se siamo disponibili, il Signore opera, non aspetta altro che operare in noi. Vuole che non ostacoliamo la sua via con le nostre testardaggini per accogliere la sua grazia. “Sottomettersi” significa lasciar fare a Lui, lasciare andare il timone con cui vogliamo controllare la realtà e la vita. Lasciamo che sia lui a guidarci.

v.8B Purificate le mani, o peccatori, santificate i cuori, o persone che avete l’animo doppio.

Qui l’apostolo, da buon giudeo, sottolinea due aspetti: lavarsi le mani e santificare il cuore. Purificare le mani, vuol dire avere comportamenti buoni e onesti; mentre il cuore santificato rimanda alle intenzioni, alle motivazioni di fondo. Lavare le mani è più facile che santificare il cuore. Il rischio infatti è di avere l’anima doppia. Giacomo usa una strana espressione: “santificate i cuori, voi che avete due anime”. Noi diciamo avere ‘due facce’; Giacomo dice “avere due anime”, due atteggiamenti, intendendo ‘atteggiamenti doppi, finti, falsi’. L’essere doppi consiste nel dire una cosa pensandone un’altra; succede quando l’atteggiamento non corrisponde al cuore. Santificare il cuore significa purificare le intenzioni in modo tale che ci sia una omogeneità, una rettitudine, un equilibrio fra dentro e fuori. Uniti sinceramente al Signore, essendo una cosa sola con lui, è possibile affrontare questa realtà anche con l’atteggiamento della penitenza, del lamento, dell’afflizione, della preghiera.

v.9 Lamentatevi e affliggetevi e pregate; il vostro riso si muti in tristezza e la gioia in abbattimento.                                                    

V. 10 Umiliatevi davanti al Signore e vi esalterà.

L’invito finale è a non prendere Dio con faciloneria, ma prenderlo sul serio. L’apostolo chiede di umiliarsi davanti al Signore: “Chi si umilia sarà esaltato”. “Cristo Gesù pur essendo di natura divina non la tenne per sé, ma si spogliò, si svuotò, si umiliò, si fece obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato”. “Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà, sottomettetevi a Lui, umiliatevi davanti a Lui”: questo è un atto di amore che fa diventare grandi davanti a Dio!

Consiglio pastorale del 16 maggio 2022 ed ... allegati

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GRUPPO IN PARROCCHIA600X337

gruppo di parrocchiani ad un incontro di qualche anno fa.

"La fede e le opere" riflessione su - Gc 2, 14-26 - di Elena Terziotti

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QUALE CONGIUNZIONE SCEGLIAMO?

Vorrei partire in questa riflessione dalla lettura del brano del Vangelo di Marta e Maria che troviamo in Luca 10, 38-42.

Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».

In questo brano la scelta di Marta, ovvero la scelta della opere, e la scelta di Maria, ovvero la scelta della fede, sembrano proprio in contrapposizione l’una con l’altra. Interpellato, Gesù non ha dubbi e chiaramente dice a Marta e a tutti noi: è la fede la parte migliore che non verrà tolta. E’ un brano che abbiamo letto tutti noi molte volte, forse compreso-forse no, ma che ci invita sempre a sederci ai peidi di Gesù e metterci in ascolto. Questo vangelo segna un 1 a 0 per la Fede.

Nella lettera di Giacomo, ad una prima lettura, il “dilemma” tra la fede o le opere sembrerebbe riproporsi, ma la scelta, se di scelta si tratta, è meno evidente.

Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede. Tu credi che c'è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza calore? Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull'altare? Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. Vedete che l'uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede. Così anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità agli esploratori e averli rimandati per altra via? Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta.

Vorrei partire dal secondo versetto “se uno dice di avere la fede ma non ha le opere”. Da una parte abbiamo uno che “dice di avere” e dall’altra parte uno “ha”: se fosse scritta adesso questa lettera, tra uno che “dice di avere” e uno che “ha” vincerebbe sicuramente quello che “ha le opere”! Nella nostra società quello che non è misurabile, quello che è basato “solo” sulla parola non ha assolutamente nessun valore. E in realtà anche le domande che seguono sembrano quasi irridere l’uomo di fede. Quindi siamo uno pari: nel vangelo vince l’avere fede, in Giacomo vincono le opere.

Ma se andiamo avanti nella lettura della lettera e arrivano ai versetti in cui si legge di Abramo ecco che arriva la svolta: “La fede cooperava con le opere e per le opere quella fede divenne perfetta”. E così che arriviamo al nostro titolo: LA FEDE E LE OPERE. Sono due realtà che devono cooperare. E infatti già nel titolo che ci siamo assegnati non c’è una “opposizione” perché non ci siamo chiesti “le fede O le opere” ma “la fede E le opere”. Non c’è un AUT AUT ma un ET! Sono voluta partire da questo falso dubbio tra fede e opere perché in realtà, secondo me, in fondo in fondo, dentro ciascuno di noi un piccolo sbilanciamento resta: verso quello che riteniamo più facile, o più giusto, o più incline al nostro modo di essere, sebbene la Parola ci dica nettamente che la fede e le opere cooperano in ciascuno di noi e nella storia.

CHI E’ IL MIO PROSSIMO?

La nostra riflessione diventa quindi: cosa vuol dire avere fede? E cosa vuol dire avere le opere?

Credo che per rispondere a questa domanda ci venga incontro il vangelo del Buon Samaritano che lo troviamo esattamente in Lc 10, 25-37, ovvero immediatamente prima delle sorelle di Lazzaro con cui abbiamo iniziato…

Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso».

A mio avviso è probabile che il dottore della legge che voleva mettere alla prova Gesù, dentro di sé, mentre gli faceva la prima domanda già credeva di avere la risposta: “basta essere un dottore della legge”. Oppure era particolarmente illuminato e si domandava “bisogna avere fede o compiere delle opere”? E Gesù fa rispondere a lui stesso con una risposta che sappiamo bene.e trova le radici dell’antico testamento: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. Ma poi per giustificarsi chiede a Gesù “chi è il mio prossimo” e Gesù, nel rispondere a questa domanda, ci aiuta a risponde alla nostra domanda di stasera.

Abbi fede, ovvero: Ama il Signore tuo Dio. Ovvero considera che nella tua vita ci sia un Signore, che non sei tu. Considera che la tua salvezza non dipende da te per quanto ti sforzerai. Possiamo quindi dire che avere fede significa credere nella vita eterna e credere che esista un Dio che mi salva e se esiste gli parlo, lo prego e la mia vita è diversa perché lui c’è, è presente, è con me. Abbi le opere, ovvero: ama il prossimo tuo, ovvero: vedilo, fatti vicino a lui, prenditi cura di lui. Abbi compassione. E non abbandonarlo ma poi al ritorno passa ancora da lui. Avere le opere, significa credere che i fratelli me li ha posti accanto proprio quel Dio che mi salverà e che, solo amandoli con fraternità e carità, lui mi salverà.

Fino a qui abbiamo detto poco di nuovo, se non che adesso possiamo mettere qualche dettaglio su come amare i nostri fratelli.

Per fare questo, volevo condividere con voi una possibile traduzione della risposta del dottore della legge che non recita “amerai il prossimo tuo come te stesso” ma “amerai il prossimo tuo con tutto il tuo impegno”. Ovvero, noi non siamo il massimo dell’amabile, non siamo la misura dell’amore. Certo, dobbiamo amare anche noi stessi, ma sopratutto il prossimo e non come noi stessi, ma esattamente come il Signore. Infatti, amare un fratello lo può fare benissimo anche una persona che non ama Dio (anche i peccatori amano quelli che li amano). Anzi, forse lo faranno pure meglio di uno che ha la fede. Ma concentriamoci su questa traduzione: non devo amare il prossimo come me stesso, ma devo amare il prossimo con tutto me stesso, ovvero come Dio. E non intendendo il “come” al pari di una avverbio di quantità (amo il prossimo con la stessa “dose” di amore che riservo per Dio) ma come un avverbio di modo: ama li prossimo tuo come se fosse Dio.

IL DISCERNIMENTO

Abbiamo detto quindi che indubbiamente la fede e le opere devono cooperare e quindi non c’è un primato dell’una sull’altra e viceversa. E che avere fede significa vivere affidando la nostra salvezza al Signore, e che, per quanto io mi prodighi, sarà sempre e solo il suo amore a salvarmi, ma che allo stesso tempo, questo Signore, mi chiede di prodigarmi incessantemente per i miei fratelli, come se solo da questo dipendesse la mia salvezza. Ora facciamo un passo avanti.

Come ha fatto il buon Samaritano a capire che era giusto fare quello che ha fatto? A capire che non si trattava di un agguato? Chi l’ha ispirato? Dove ha trovato il coraggio? Quale dono l’ha mosso?

Io a volte, anzi spesso, purtroppo, da quando è arrivato il Covid, spesso mi dico che come si fa, si sbaglia. E ne sono convinta! Però allo stesso tempo sono anche convinta che questo non sia un motivo per non fare. Ma come faccio essere sicura che le mie scelte, che sostengo di fare per fede e per amore, siano le opere giuste?

Io credo che il dono che ha fatto vedere al Samaritano il Signore nell' uomo al ciglio della strada e gli abbia ispirato le opere giuste , si chiami DISCERNIMENTO.

Cos’è il discernimento? Nel linguaggio quotidiano si intende, generalizzando un po’, la capacità di scegliere. Per noi credenti è la capacità di riconoscere Gesù, come nostro Signore e Salvatore. E’ il dono di capirsi con Dio in una relazione, tra noi e lui, in cui lui abita in noi e attraverso questa presenza lo conosciamo e conosciamo noi stessi.

E’ quindi molto di più di una bussola che ci rende capaci di scelte sagge; è proprio saper ascoltare la voce dentro di noi che ci guida ad agire come agirebbe Gesù, perché lui abita in noi. E’ una conoscenza che ci rende simili a Dio.

Dio ci parla attraverso i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Qui si fa un po’ difficile. Perché possono esserci pensieri buoni, evangelici, ma sentimenti negativi, ed è il sentimento che “esprime” la mia adesione o meno a Dio. L’esempio più banale è chi si prodiga per gli altri non per servire il Signore ma per avere visibilità o anche solo riconoscenza.

E’ come se per agire opere davvero mosse dall’amore che deriva dalla nostra fede, noi dovessimo prima domandarci il delle nostre opere. Che sapore hanno? Che gusto hanno? Hanno il gusto di Dio? Il discernimento non è quindi un ragionamento, una logica, un calcolo, ma è una sapienza spirituale che ci deriva dalla nostra esperienza di amore di Dio e che solo attraverso la nostra capacità di umiltà e di farci guidare da un padre spirituale sapremo veramente vivere. Personalmente mi fermo su questo dono perché non mi sento all’altezza di andare avanti, ma il mio desiderio era solo quello di condividere un pensiero che sto facendo e anche se non è maturo magari può far partire in altri di noi il desiderio di approfondire. Il titolo del libro che sto leggendo e da cui ho tratto queste riflessioni si intitola appunto “il discernimento” scritto da Marko Ivan Rupnik (Ed. Lipa).

ESSERE ED ESSERCI

Nel pensare a questo percorso sulla fede e le opere ho desiderato anche cercare la parola di Papa Francesco e ho visto che Domenica 23 Gennaio 2022 è stata la III Giornata della Parola nel corso della quale il Papa ha conferito il ministero del Lettorato e del Catechismo.
Questo gesto a noi già conferisce ancora più responsabilità come lettori, e da importanza al nostro ministero.
In questa occasione, nell’Omelia il Papa ha detto: “La Parola ci spinge fuori da noi stessi per metterci in cammino incontro ai fratelli con la sola forza mite dell’amore liberante di Dio […] In questo modo ci rivela qual è il culto più gradito a Dio: prendersi cura del prossimo”.
Anche Papa Francesco, quindi, in questa occasione come in tutto il suo magistero, pone al centro la cura del prossimo. Non declina però dettagliatamente come prendersi cura del prossimo. Certo, abbiamo visto attraverso il dono del discernimento, ma mi sono chiesta se il come non fosse declinato dal Papa semplicemente perché già chiarito da Gesù nel vangelo. E allora ho pensato a quale brano potesse “integrare” questo pensiero di Papa Francesco, e ne ho individuato uno che fosse può sembrare un po’ distante o strano, eppure per me significativo. Ho pensato a Gesù nel Getsemani. “Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni […] Restate qui e vegliate con me”.
Anche nel momento più intimo, più solitario, ultimo, Gesù ci chiede di esserci. Di essere presenti. Vicini. Di fianco. Prossimi.
A volte prendersi cura è portare in spalla, come ha fatto il Samaritano, a volte è semplicemente esserci, ma esserci davvero. Fisicamente.
Io credo che la nostra fede ci porti ad amare, di un amore che si fa presente e concreto, esattamente come Dio (che è amore) ma che si è incarnato in Gesù e si è fatto uomo presente in mezzo a noi, anzi dentro ciascuno di noi. La nostra è una fede che nasce da una relazione e che per esprimersi ha bisogno di relazioni.
Faccio un altro esempio, sempre banale: io posso dire a un mio amico “ti voglio bene e prego per te” ma poi se non ci sono quando non ha i soldi per pagare una bolletta, se alla sera lo lascio da solo e se quando ha bisogno di parlare io non ci sono, lui cosa se ne fa del mio volergli bene? Sarà lo Spirito di volta in volta, con ciascuno, a suggerirmi quale opera potrò compiere, sarà il discernimento che in fondo è preghiera, è dono della fede, a dirmi come agire…ma alla fine, sarò io che dovrò agire. E Gesù nel Getsemani però ci ricorda una cosa. L’agire più importante, senza il quale tutto il resto non conta, è l’esserci.
Poi forse dall’esserci, a forza di esserci, si costruisce il nostro essere.
Diventiamo persone che non fanno delle opere, ma che sono operose. Persone che non danno delle cure, ma che curano, persone che non fanno i credenti, ma che credono. Ma per arrivare qui credo che si debba restare tanto e a lungo vicino a Gesù e vegliare con lui.
 
IL SENSUS FIDEI
 
Siccome il proposito che ci eravamo dati era quello di collegare la lettura di Giacomo al nostro libro del Sinodo, la proposizione su cui cui vorrei riflettere insieme questa sera, perché mi sembra andare in continuità con questi pensieri, è la 16, ovvero quella che si intitola
“SUL SENSUS FIDEI, DISCERNIMENTO SPIRITUALE (PERSONALE E COMUNITARIO).
Vi invito a leggerla, ma intanto provo a introdurla. Inizia così:
Per dono dello Spirito, tutti i battezzati partecipano all’ ufficio profetico di Gesù e rendono a Lui testimonianza per mezzo di una vita di fede e di carità e nella preghiera.
Ancora una volta quindi la falsa dicotomia fra fede e opere è sbaragliata. Ancora una volta è la preghiera l’anello di congiunzione tra le due.
Ancora una volta è dono dello Spirito Santo, e non l’aver studiato, o un determinato ruolo, che ci abilità a rendere testimonianza, ma siamo chiamati tutti in virtù del nostro battesimo. Ancora una volta, tra le righe, arriva il monito a stare attenti alla falsa umiltà. Io su questo tema sono molto agguerrita.
Certo, il discernimento per primo richiede che siamo persone umili, ma stiamo attenti a non nasconderci dietro a una cosa che chiamiamo umiltà e invece è pigrizia e paura. Siamo umili, si, ma siamo anche figli di Dio. Quindi non c’è nulla che non siamo titolati a dire o a fare nella chiesa.
Tutti i fedeli possiedono per istinto la verità del Vangelo e questo istinto legato dal dono della fede, nella chiesa prende appunto il nome di Sensus fiedi. Il fedele non può sbagliare nel credere, perché questo dono del sensu fidi illumina la nostra esistenza.
Certo, il fedele può sbagliare nell’agire. Per questo lo Spirito Santo abita in noi. Leggerne i segni e riconoscere la presenza del Signore è il dono del discernimento, che deve essere sia personale che comunitario, è che quando coltivato aiuta il fedele anche nel non sbagliare nell’agire.
Sono temi grandi e delicati, che desidero condividere, ma non sono in grado di spiegare meglio di così. Quello che secondo me è importante è che tutti ci sentiamo mandati dal Signore a rendergli testimonianza, nessun battezzato è escluso. Chi si esclude, lo fa per sua scelta.
 

CONCLUSIONI

Come anticipato, avevo iniziato questa riflessione mettendo un O tra la Fede e le Opere. Ma poi mi sono detta che proprio come il nostro DIO è TRINITARIO, così si deve sempre uscire dalla logica della DICOTOMIA. Non c’è mai un O ma sempre un E. Non c’è una scelta tra un Dio Spirito o un Dio Incarnato. Non è una scelta tra etica e morale. Non c’è una scelta tra scienza e fede. E così non c’è una scelta da fare tra avere fede e avere le opere.

Mi ero anche chiesta: amare, è frutto della fede o delle opere? O anche andare a messa: è frutto della fede o delle opere? Ma amare e andare a messa sono proprio il frutto della fede incarnata nelle opere.

Questa sintesi, questa armonia, in effetti, era già contenuta nella lettera di Giacomo, che chiude con una grandissima consolazione:

Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle sue opere e non soltanto in base alla sua fede.

La lettera di Giacomo e la proposizione che abbiamo letto del libro del Sinodo, ci permettono di pensare che se avremo tanto amato, e avremo lasciato agire questo amore attraverso il gusto di Dio che abita in noi, ovvero attraverso il dono del discernimento che avremo alimentato con la nostra fede, allora saremo comunque giustificati e salvati perché “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” dice il Signore. (Mt 25,45).

Proprio oggi, 24 Febbraio 2022 il Santo Padre ha presentato il messaggio per la Quaresima. Ancora una volta, non possiamo dirci cristiani se non mettiamo i fratelli al centro della nostra vita. Il papa ci ricorda che “la pandemia ci ha fatto toccare con mano la nostra fragilità personale e sociale”. Questa Quaresima, ci permetta di sperimentare “il conforto della fede in Dio”: “Nessuno si salva da solo” e soprattutto “nessuno si salva senza Dio”.

La Fede in Dio e le nostre opere d’amore verso i fratelli siano per noi la forza lungo il cammino insieme (sinodo) che ci porta alla comprensione di noi stessi e dell’amore di Dio che danno senso e gusto alla nostra vita. Buona Quaresima a tutti noi.

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