Per gli incontri di approfondimento delle figure bibliche nell'Antico Testamento, Elena ed Andrea hanno presentato il libro di Ester (Bibbia) al piccolo gruppo di parrocchiani presenti nella serata di venerdì 27 settembre in Ognissanti.
Qui sotto si possono trovare gli interessanti spunti da loro raccolti sia per conoscere la vicenda di Ester sia per le relative riflessioni.
ANDREA: Introduzione esegetica
Il libro di Ester ci giunge in tre forme: Testo Masoretico (TM), Testo Alfa (AT), Settanta (LXX).
Il TM, scritto in ebraico forse nel III sec. a.C., usa come fonte una storia popolare su Ester e Mardocheo, alla quale aggiunge la spiegazione della festa di Purim. Non nomina mai Dio né alcun altro aspetto esplicitamente religioso. È parte del canone ebraico.
Il Testo Alfa (AT = Alpha Text) è la traduzione in greco di un testo ebraico simile, ma non identico al TM (circa del 20% più corto). Non ha il complotto che Mardocheo denuncia in 2,21-23 e le leggi persiane non sono presentate come irrevocabili (due punti importanti nella trama del TM). Non fa menzione della festa di Purim e, soprattutto, introduce alcune menzioni esplicite di Dio. Diffuso soprattutto in Egitto, non godette però dello stesso statuto canonico del TM.
La LXX è la traduzione in greco del TM, risalente al II sec. a.C. Contiene sei lunghi passaggi e diverse altre brevi varianti non presenti nel TM, aggiunte o al momento della traduzione o più tardi. Le integrazioni provvedono soprattutto a esplicitare la valenza religiosa del libro (Dio vi è nominato cinquanta volte) e a presentare i protagonisti Ester e Mardocheo come dei giudei osservanti. In tal modo, però, come vedremo, le aggiunte cambiano radicalmente la natura del libro, tanto da poter considerare Ester greco come un'opera diversa da Ester ebraico.
La LXX fa parte dei libri canonici delle Chiese Ortodosse e dei libri deuterocanonici della Chiesa Cattolica (La traduzione della Vulgata le aggiunge alla fine della sua traduzione del TM, continuando però una numerazione progressiva da 11,1 a 16,24).
Nelle edizioni protestanti della Bibbia le aggiunte sovente appaiono separate, nella sezione contenente i Libri Apocrifi.
Queste parti integrative della LXX furono successivamente aggiunte anche al Testo Alfa, per omologare le due versioni greche. Inoltre, esistono altre traduzioni sia del TM sia della LXX, come la Vetus Latina, due traduzioni targumiche in aramaico di tipo molto libero, e infine una versione a parafrasi da parte di Giuseppe Flavio che sembra conoscere le diverse versioni diffuse al suo tempo
Nella edizione della Bibbia Cei (contenuta ad esempio nella Bibbia di Gerusalemme) queste parti aggiunte non sono sempre chiaramente distinte e quelle più brevi non sono indicate. Esse sono riconoscibili perché indicate a fianco con la numerazione della Volgata e nel testo con una numerazione letterale alfabetica (a-z) affiancata al numero del versetto del TM da cui parte l'aggiunta. Nelle edizioni moderne di studio tali aggiunte maggiori sono indicate con le lettere maiuscole A-F e una numerazione autonoma, talvolta inserite all'interno stesso del testo, talvolta inserite in due presentazioni distinte del libro, del TM prima e della LXX dopo (scelta più indicata).
Trama-Racconto
La storia, in breve, è questa: Serse, dopo aver ripudiato la prima moglie che si era rifiutata di andare alla cerimonia di intronizzazione come regina, ordina che si cerchino in tutto l’impero le fanciulle più belle, perché possa scegliere quella che diventerà sua moglie. Tra le giovani che arrivano dalle varie province di Persia, si innamora di Ester, figlia adottiva di Mardocheo, un ebreo deportato da Gerusalemme al tempo del re babilonese Nabucodonosor. Ester, su consiglio di Mardocheo, non svela a Serse la sua origine, ma tiene celata la propria appartenenza al popolo di Israele. I due si sposano, Ester è dunque eletta regina e, da regina, non cambia il suo modo di vivere: nel proprio cuore, così come nei comportamenti esteriori, resta fedele agli insegnamenti ricevuti da Mardocheo, ai comandamenti del Dio di Israele (cf. Est 2,20).
Gelosi della promozione di Mardocheo, che ora presta servizio nel palazzo del re, due eunuchi tramano una congiura contro Serse per ucciderlo. Mardocheo la scopre, ne informa Ester, la quale a sua volta rivela tutto a Serse. La congiura viene così sventata e Serse fa annotare nelle cronache di corte il fatto, perché resti memoria del buon servizio di Mardocheo, pronto e affidabile.
Quindi nel racconto è introdotta un’altra figura: Aman, un funzionario di corte che stringe amicizia con Serse. I due passano molto tempo insieme, il re lo fa sedere al primo posto nei banchetti, e ordina che tutti quelli che vivono nel palazzo si prostrino davanti ad Aman. Mardocheo però non si inchina davanti ad Aman, il quale se ne accorge e, approfittando del favore che gode presso Serse, convince il re a decretare lo sterminio di tutti gli ebrei dell’impero. Serse, infatti, non sa che il suo funzionario Mardocheo e sua moglie Ester sono ebrei.
Mardocheo, appresa la notizia, è profondamente turbato, e chiede a Ester di intercedere presso il re a favore del loro popolo: è arrivato il momento di rivelare l’appartenenza a Israele, per salvarne la vita.
Arriviamo al passo più intenso del libro di Ester: i giorni in cui questa giovane donna, regina di un regno che non è il suo, si trova di fronte alla terribile responsabilità di presentarsi al re, chiedere la revoca dell’editto contro gli ebrei, e insieme svelare la malvagità di Aman, che nel frattempo, oltre a redigere l’editto di sterminio, aveva anche fatto costruire un palo alto 25 metri per impiccarvi Mardocheo.
Ester sa che chiunque si presenti al re senza essere stato prima chiamato è reo di morte, secondo le leggi che vigevano allora nell’impero persiano, e sa che l’unica speranza di salvezza per il suo popolo è che lei infranga questo divieto, a rischio della propria vita.
Dopo tre giorni, Ester si riveste degli abiti più eleganti, prende con sé due ancelle, e si dirige verso la stanza del re: ha il viso lieto, ma il cuore oppresso dalla paura. Attraversate tutte le porte, si ferma davanti al re. Allo sguardo di lui, pieno di collera, Ester cade a terra, svenuta. Serse allora balza giù dal trono e, preso da un moto di dolcezza e insieme preoccupazione, la soccorre. La prende tra le braccia, finché lei non si rialza, e le dice: “Che c’è, Ester? Coraggio, tu non morirai, perché il nostro decreto è solo per la gente comune. Avvicìnati”. Ester, dopo ripetuti inviti del re, gli chiede la grazia di risparmiare il suo popolo, e accusa Aman, che manipola la politica imperiale per desiderio di potere, e che è l’ideatore dell’editto di sterminio contro gli ebrei. Serse ascolta la preghiera di Ester e fa redigere un contro-editto in cui si annulla l’ordine contro il popolo di Israele, e anzi dispone di punire quanti avessero cercato di far male ai figli di Israele. Così, grazie alla mediazione audace di Ester, il popolo ebraico è scampato a un massacro ormai imminente.
L'opera si apre "nell'anno secondo del regno di Assuero, il Gran Re", identificato dai commentatori con Serse I, benché siano state proposte da alcuni anche altre ipotesi: accettando questa identificazione, sarebbe nel 485 a.C. Il prologo, conservato solo nel testo greco e quindi forse posteriore, introduce la figura di Mardocheo, giudeo della tribù di Beniamino che vive a Susa, capitale dell'impero persiano e residenza invernale dei Re dei Re a partire dal regno di Dario I. Egli sogna due draghi che con il loro sibilo inducono i popoli a combattere contro il "popolo dei giusti". Questo sogno premonitore lascia intendere come sui Giudei stia per abbattersi una grave sciagura.
Nel primo capitolo il re Assuero manda a chiamare la sua sposa, la regina Vasti, personaggio di cui non si hanno notizie al di fuori della Bibbia, ma questa è intenta a festeggiare nel gineceo e non obbedisce. Allora Assuero la ripudia e si cerca una nuova sposa. La scelta cade sulla giudea Adassa (in ebraico mirto), di cui Mardocheo è tutore, essendo figlia di un suo zio. Ma Assuero ignora che Adassa appartiene al popolo di Giuda e la conosce come Ester.
Festa Purim
La festività ebraica di Purim (in ebraico פורים, Sorti) cade il giorno 14 del mese ebraico di Adar.
Ricorda eventi narrati nella Meghillà di Estèr, avvenimenti che risalgono a 5 secoli prima dell'Era Volgare.
A Gerusalemme, a Susa (capitale della Persia) e nelle città cinte da mura ai tempi di Yehoshua Bin Nun, la festa durava 2 giorni e si concludeva probabilmente al tramonto del 15 di Adar.
Il digiuno del giorno precedente ricorda quello fatto da Ester e Mardocheo per invocare aiuto divino nel far cambiare idea al Re Assuero, quando il perfido Amàn, consigliere del Re di Persia Assuero (Serse I), tramando per liberarsi degli ebrei, convinse inizialmente il Gran Re a ucciderli tutti. La moglie del Re, Esther, riuscì a ribaltare le sorti e a salvare il popolo ebraico residente nei territori della Persia.
Questo digiuno viene quindi chiamato Digiuno di Ester e dura dall'alba fin dopo tramonto, a sera inoltrata
Inserito nel canone ebraico (pur con grandi discussioni, ma diviene la Meghillah, il rotolo, per eccellenza) e in quello cristiano (sia testo ebraico che testo greco ...la parola di Dio può manifestarsi con parole scritte differenti.)
Come ogni libro della Bibbia Ester parla a ciascuno di noi, ed è ancora molto attuale. Ho scelto 4 aspetti che ci possono aiutare ad essere sempre più DISCEPOLI e DISCEPOLE -oggi- di Gesù.
Il primo punto da cui vorrei partire nel provare ad attualizzare il libro di Ester è quello dell’antisemitismo.
Per 2 motivi: il primo è perché forse è l’aspetto che più si lega alla trama che abbiamo appena ascoltato, alla storia nella sua interezza.
Il secondo è perché ho avuto la fortuna di andare ad ascoltare questa primavera un rabbino di Milano che ci ha illustrato questo libro e ovviamente per lui questo era il tema principale.
Non sappiamo se questa storia sia realmente accaduta, anzi, molto probabilmente no, ma non importa.
Sebbene la parola “genocidio” sia una parola recente, abbiamo sentito come nel libro di Ester compaia questa idea: lo sterminio di tutto il popolo, anche se disperso in mezzo agli altri popoli, cancellare interamente il popolo e il ricordo della sua esistenza. Questo era il piano del primo ministro Aman “distruggere, uccidere, sterminare tutti i giudei” (3,13).
Stiamo parlando della più grossa sciagura della storia, per questo nel libro di Ester, nella versione ebraica, non è mai citato Dio. Questo è molto importante, in un libro in cui si parla dello sterminio dei giudei, non si può nominare Dio.
Gli ebrei sono il pericolo nascoso perché sono sparpagliati nella società non ebrea, da una parte vogliono conformarsi (forse perché se sono meno visibili possono essere più pericolosi?) ma dall’altra vogliono rispettare le loro leggi che sono diverse da quelle di ogni altro popolo (3,8).
Il re teorizza che gli ebrei sono CONTRO gli altri esseri umani e contro la stabilità del regno (come è attuale questa “accusa”!) e che quindi lui li vuole uccidere “per la stabilità del regno”; se siamo tutti uguali siamo tutti omologati, siamo tutti in pace. MA questo genera l’idea di genocidio.
[Essendo io alla testa di molte nazioni e avendo l'impero di tutto il mondo, non esaltato dall'orgoglio del potere, ma governando sempre con moderazione e con dolcezza, ho deciso di rendere sempre indisturbata la vita dei sudditi, di assicurare un regno tranquillo e sicuro fino alle frontiere e di far rifiorire la pace sospirata da tutti gli uomini.(3,13b)]
Questa storia ci dice che la soluzione non è nell’uguaglianza, ma nella dignità della differenza.
E’ uno dei libri più letti dopo la Shoa.
Era il libro più odiato la Lutero che era un grande antisemita.
Era un libro molto letto da chi era obbligato a convertirsi, a mascherarsi.
Questo è l’unico libro che manca nella biblioteca di Qumran, ed è stato conservato solo nella tradizione rabbinica.
Come si salvano dal genocidio? Come si salvano dal potere del potente?
Si salvano attraverso l’azione umana che rende visibile l’azione di Dio.
E qui si introduce il secondo tema di questo libro: l’apparente nascondimento di Dio che in realtà è il suo fare spazio alla responsabilità umana.
Se stanno tramando un genocidio, se è appena avvenuta la distruzione del tempio, la rovina dell’indipendenza nazionale e la deportazione in terra pagana, dov’è Dio?
Ester è l’unica che può salvare le sorti. Ma come?
Viene chiamata da suo zio - Dio la chiama attraverso un uomo; non dobbiamo aver paura a essere voce di Dio per gli altri;
Viene posta la domanda: non è che per caso sei diventata regina per questo? Come ha agito la provvidenza finora? Anche quando andava tutto bene la provvidenza agiva ... metteva le basi… noi pensiamo alla provvidenza quando ci salva nel bisogno, in realtà agisce sempre;
Ester prega e/o digiuna.
«Non dire a te stessa che tu sola potrai salvarti nel regno, fra tutti i giudei» (4, 13).
Si tratta di un tema teologico molto importante: il rapporto tra salvezza del singolo e salvezza della collettività. Nessuno è un’isola, neanche nell’esperienza di fede e di salvezza. Non c’è una salvezza egoistica e non c’è un cammino di fede senza amore per gli altri.
Con una domanda, Mardocheo, quindi, provoca ulteriormente Ester invitandola a leggere in profondità la propria vita, in particolare la sua inaspettata ascesa al trono: «Chi sa che tu non sia diventata regina proprio per questa circostanza?» (4, 14). Fa emergere in tal modo un altro tema teologico: quello della provvidenza di Dio che tutto dispone secondo un piano misterioso, stupendo, imprevedibile e insondabile.
Ester è posta di fronte a una scelta imprescindibile: rischiare la propria vita per salvare il suo popolo o salvare la propria vita rischiando la distruzione del suo popolo?
Senza esitare, con risolutezza, decide la prima soluzione. Si mette a digiuno per tre giorni, coinvolgendo tutto il popolo, poi pronuncia la lapidaria dichiarazione: «Contravvenendo alla legge, entrerò dal re, anche se dovessi morire» (4, 16). Quindi si ritira e prega: con intensità eleva un inno alla potenza e all’amore misericordioso di Dio: «Ricordati, Signore, manifestati nel giorno della nostra afflizione e dà a me coraggio, o re degli dei e dominatore di ogni potere. Metti sulla mia bocca una parola ben misurata di fronte al leone e volgi il suo cuore all’odio contro colui che ci combatte, per lo sterminio suo e di coloro che sono d’accordo con lui. Quanto a noi, salvaci con la tua mano e vieni in mio aiuto, perché sono sola e non ho altri che te, Signore!» (4, 17r-17t).
Rinforzata dalla preghiera si alza e, indossati i sontuosi abiti da regina, va ad affrontare il re. Fiduciosa nel Signore e solidale con i suoi connazionali, Ester è pronta a collaborare al progetto divino per cambiare la sorte del suo popolo: «Il suo viso era lieto, come ispirato a benevolenza».
TROVA IL CORAGGIO: NON DI PARLARE AL RE, MADI PARLARE IN NOME DI DIO.
Quindi è evidente come l’azione di Dio si manifesta nell’azione degli uomini.
Sono tempi bui, Dio non è all’opera, non è manifesto, sta nascondendo il suo volto. PERCHE’?
Non è un momento di miracoli manifesti, l’accesso a Dio è difficile,
MA IN REALTA’
Dio in realtà lascia agire Ester e suo zio Mardocheo, lascia che l’azione umana renda possibile l’azione provvidenziale di Dio. E’ il tempo della lontananza in cui non è facile scorgere l’azione di Dio eppure…è l’azione umana che rende visibile la provvidenza.
DIO E’ PRESENTE ANCHE SE NON E’ EVIDENTE.
I benefici divini sono strettamente legati alla Responsabilità umana: i personaggi concreti hanno un ruolo decisivo.
Dio arretra per lasciare che emergano le SCELTE umane di fronte alle variabili della storia.
A volte Dio è presente in modo amorevole, e quando non è presente, è presente la sua CURA per noi
C’è un altro tema che è quello della figura femminile: Ester come paradigma di tutte le donne della Bibbia.
Il testo è abbastanza critico rispetto alla selezione delle giovani vergini per il re: sono “deportate” per il re, “rapite” per il re. Anche il narratore è critico rispetto a questa condizione delle donne, ma non è una critica palese perché il testo doveva essere letto anche a corte. E’ una critica velata ma i verbi usati dal narratore non lasciano dubbi.
Nell’Antico Testamento, nonostante il contesto culturale a esse sfavorevole, le donne non sono invisibili: si presentano interlocutrici di Dio, rivelatrici del suo mistero e collaboratrici nella realizzazione del suo progetto.
Soprattutto nei momenti di crisi e d’incertezza, nel tempo in cui bisogna affrontare le sfide più dure, nella situazione in cui si richiede un maggior slancio di speranza, un supplemento di autenticità umana, di radicalità e di eroismo, ecco che Dio agisce per mezzo della donna.
La donna emerge nell’Antico Testamento come il luogo dialettico tra la debolezza umana e la forza divina, la prova autentica di ciò che l’essere umano è capace di fare con l’aiuto di Dio.
In mezzo alla schiera femminile emerge Maria, la «benedetta fra le donne». Come Ester e più di lei, Maria guarda con ottimismo realistico la scena del mondo, vive con speranza gli alti e bassi della storia. Ella si fida di Dio, si fida dell’onnipotente che ha fatto e che continua a fare «grandi cose».
Con il suo canto del Magnificat Maria annuncia, testimonia e celebra la vittoria di Dio. Il rovesciamento delle posizioni tra ricchi e poveri, tra potenti e umili, tra forti e deboli, è segno e manifestazione di questa vittoria escatologica già presente col farsi uomo del figlio di Dio. Il Magnificat di Maria trascende la gioia di purim, un definitivo ribaltamento della sorte dell’umanità.
Infine, il tema forse principale del testo, il tema del doppio e del capovolgimento della sorte.
Partiamo dalla figura del RE: sembra tanto potente, di un regno tanto potente, poi non sa cosa fare con la prima moglie, è debole e fa quello che gli dicono di fare i suoi consiglieri.
Il popolo sembra omologato e inserito, in realtà osserva le sue leggi.
Aman sembra un consigliere del Re in realtà ha ordito un piano a sua insaputa.
Ester sembra svenire poi in realtà è colei che salva le sorti del suo popolo.
Ester è ebrea, ma non può, all’inizio, svelare le sue origini.
ESTER per salvare il suo popolo dal nascondimento di Dio deve fare una cosa: USCIRE DAL SUO NASCONDIMENTO (le avevano detto di non dire di essere ebrea) e svelare al re il piano di Aman.
Il nome ESTER ha la stessa radice di STELLA che indica proprio un astro che illumina e poi sparisce.
Ester stessa è regina ma nasconde le sue origini ebree. La radice STR indica proprio i verbi del nascondimento, introduce la dinamica dell’apparire e del nascondersi.
Anche il nome Ester è di origine persiana, e significa proprio “nascosta, occultata”.
Il doppio fondamentale è l’alternanza tra l’apparire e del nascondersi.
Cosa ci vuole dire con questo l’autore?
Secondo noi 2 cose:
Ci vuole dire di non fermarci alla superficie degli eventi, alla lettura superficiale, ma di andare oltre. E fino qui…ma fino a quanto oltre? Fino a dove?
FINO A SCORGERE LA CREATIVITA’ D’AMORE DEL DIO PROVVIDENTE.
Per me questo “fino a” è molto importante.
Ci dice che il doppio, la diversità, è anche dentro ciascuno di noi. Che dobbiamo cercare di tendere a un unicum anche di noi stessi anche se non è facile, perché è naturale che dentro di noi ci siano diversi modi di essere. Ma ci dice che l’unicum che conta è quello dentro di noi e non quello di essere tutti uguali.
Noi non sappiamo se la storia di Ester sia accaduta per davvero, ma non importa. Potrebbe anche essere un racconto futuro. Questo non è importante.
Ci sono 2 piani di lettura: da una parte la narrazione della storia di Ester, regina che riesce a salvare il suo popolo, dall’altra parte una profonda riflessione sulle diversità e sul mistero del doppio, ciò che appare rispetto a ciò che realmente è. Ester è simbolo di questo mistero, di questo nascondimento in cui, in taluni momenti, anche Dio sembra rientrare.
Anche nella nostra vita soffriamo questo doppio, la diversità è difficile da gestire anche all’interno di noi stessi, ma esiste e non può essere negata.
La storia di Ester è contenuta in un rotolo, in un testo che per essere letto deve essere srotolato e arrotolato più volte. Solo questa azione permette di leggerlo e quindi di capirlo. E così è per la nostra vita. Per comprenderla, è necessario arrotolare e srotolare avvenimenti, tempi, incontri, dubbi e silenzi. E voler andare in profondità, oltre ciò che appare verso ciò che è nascosto, senza accontentarsi di ciò che sembra, fino a scorgere la creatività di Dio.
A una prima lettura, la vicenda di Ester, sembra quindi la storia dell’empio che cade nella fossa preparata per il giusto” (Pr 26,7) in realtà è una storia di fede e di responsabilità che permette alle donne e gli uomini che lo desiderano di vedere svelato il volto di Dio, nascosto forse ai più, o forse solo a chi non lo vuole veramente incontrare.
La fede dei protagonisti e la fedeltà di Dio sono la certezza della salvezza.
Comunità San Barnaba/Ognissanti Percorso sul ministero della coppia 1
don Riccardo
Il racconto che segue circa il trasferimento di Giacobbe da Labano, dal capitolo 29 della Genesi, è molto bello e simile alle vicende di coppia precedenti (Abramo e Sara, Isacco e Rebecca. “Giacobbe si mise in cammino e andò nel paese degli orientali. Vide nella campagna un pozzo” (29,1-2a). Anche in questo caso l'incontro d'amore avviene al pozzo, analogamente all'incontro fra il servo di Abramo e Rebecca, come pure fra Mosè e Zippora al pozzo di Madian, e fra Gesù e la samaritana al pozzo di Sichar; ci sono dei riferimenti importanti, il pozzo infatti è l’ambiente amoroso per eccellenza essendo l’unico punto dove vanno le ragazze fuori dal chiuso della città, è cioè l'ambiente dove si possono incontrare le ragazze, da sole. Riprendiamo il racconto. “Vide nella campagna un pozzo e tre greggi di piccolo bestiame, accovacciati vicino, perché a quel pozzo si abbeveravano i greggi, ma la pietra sulla bocca del pozzo era grande. Quando tutti i greggi si erano radunati là, i pastori rotolavano la pietra dalla bocca del pozzo e abbeveravano il bestiame; poi rimettevano la pietra al posto sulla bocca del pozzo” (Ibid. 2-3). Il motivo di questa procedura deriva dal fatto che il pozzo era da usare in società, per cui la pietra che lo chiudeva era molto grossa cosicché nessuno potesse usare il pozzo da solo; quindi, i soci dovevano essere tutti presenti così che, una volta mossa la pietra, potessero prendere l'acqua in parti giuste.
“Giacobbe disse loro: «Fratelli miei, di dove siete?». Risposero: «Siamo di Charran». Disse loro: «Conoscete Labano, figlio di Nacor?». Risposero: «Lo conosciamo». Disse loro: «Sta bene? ». Risposero: «Sì, ecco la figlia Rachele che viene con il gregge». Riprese: «Eccoci ancora in pieno giorno: non è tempo di radunare il bestiame. Date da bere al bestiame e andate a pascolare!». Risposero: «Non possiamo, finché non siano radunati tutti i greggi e si rotoli la pietra della bocca del pozzo; allora faremo bere il gregge». Egli stava ancora parlando con loro, quando arrivò Rachele con il bestiame del padre, perché era una pastorella. Quando Giacobbe vide Rachele, (...) fattosi avanti, rotolò la pietra dalla bocca del pozzo e fece bere le pecore di Labano, fratello di sua madre» (29,4-10).
È un racconto ironico, ci vogliono infatti tutti i pastori per muovere quella pietra, ma Giacobbe da solo, quando vede Rachele arrivare, diventa un superuomo: la ragazza gli piace talmente che, per fare bella figura, si sottopone ad uno sforzo immane e sposta da solo la pietra senza l’aiuto degli altri pastori, si fa vedere, si mette in mostra e conquista la ragazza.
“Poi Giacobbe baciò Rachele” (29,11a), cosa inusuale a quel tempo: uno straniero, che lei non conosce, le si avvicina e in pubblico la bacia! Ma subito dopo, lo straniero le spiega che è suo cugino: sono infatti figli rispettivamente di Rebecca e di Labano, fratello e sorella. Secondo quell'ambiente ed i loro costumi, erano normali i matrimoni all’interno della parentela, proprio per mantenere le consuetudini del clan familiare.
Rachele porta in casa il giovane straniero, così bello ed energico, e lo presenta al padre Labano; Giacobbe, senza porre tempo in mezzo, la chiede immediatamente in sposa e Labano la concede ben volentieri, ma ad una ben precisa condizione di scambio: che Giacobbe rimanga sette anni a prestare lavoro gratuitamente a Labano. Quest’ultimo si conferma un imbroglione ed approfitta della situazione giocando anche sui sentimenti. “Così Giacobbe servì sette anni per Rachele: gli sembrarono pochi giomi tanto era il suo amore per lei” (29,20). Questa frase è una bellissima dichiarazione di amore: ha fatto l’impossibile lavorando gratuitamente sette anni per averla in sposa, ma gli parvero pochi giorni tanto la amava.
Finalmente alla scadenza dei sette anni si può arrivare al matrimonio, che viene celebrato con grande festeggiamento e molti invitati secondo i rituali orientali, mentre la sposa giunge velata all’appuntamento; sempre velata la sposa viene condotta nel talamo, dove si reca anche Giacobbe. Al mattino però Giacobbe si accorge che la donna che ha sposato non è Rachele, ma Lia; quell’imbroglione di Labano non gli ha dato Rachele, ma la sorella maggiore.
In un certo senso è stato reso pane per focaccia: anche Giacobbe si era spacciato per il fratello Esaù imbrogliando il padre nel buio della sua cecità; adesso, al buio della tenda, Giacobbe non si è accorto che la donna con lui non era Rachele, ma la sorella. Ad uno scambio di fratelli è così corrisposto uno scambio di sorelle e l’imbroglione Giacobbe è stato a sua volta imbrogliato. Naturalmente, Giacobbe al mattino protesta, ma ormai il guaio è fatto e non è possibile tornare indietro: Lia è moglie di Giacobbe.
Come c'è da aspettarsi, Labano, dopo aver fatto presente che non poteva dare in sposa la figlia minore senza che la maggiore fosse sposata, offre di dare in sposa anche Rachele – la poligamia, in uso al tempo, permetteva questo -, ma ancora alla condizione che Giacobbe lavori altri sette anni per lui.
Giacobbe accetta e sposa anche Rachele, che questa volta gli viene accordata in anticipo, e lavora gratuitamente altri sette anni per Labano.
Naturalmente cominciano i problemi perché le due sorelle, mogli dello stesso uomo, entrano in conflitto fra loro: Rachele è la bella, è l’amata, mentre Lia è sopportata.
Vedendo il Signore che Rachele era amata e Lia disprezzata, rende quest’ultima feconda, mentre Rachele risulta sterile; si dimostra quindi, ancora una volta, che il Signore sta dalla parte del povero, dalla parte del disprezzato. Nascono così man mano i primi quattro figli di Lia, altri due seguiranno.
Al capitolo 30 della Genesi, tra l”altro anche divertente, viene raccontata la situazione di liti nell’harem: le due donne che si contendono il marito e litigano fra loro, la soddisfazione di quella che riesce ad avere figli, la disperazione di quella che non ne ha. Ad un certo punto Rachele esce con una frase tremenda, dicendo al Signore: «Dammi dei figli, altrimenti muoio», frase tremenda perché Rachele morirà di parto. Si assiste qui al dramma dell’ambiguità: si sente morire dal dispiacere se non avrà figli, chiede disperatamente di averne per non morire e invece morirà proprio avendo un figlio: sembra che il narratore voglia dire che il Signore non le dava figli per non farla morire, li ha voluti ed ha subito le conseguenze.
I “figli di Israele” sono migliori degli altri popoli”
Il racconto prosegue narrando come Giacobbe, imbrogliando Labano, riesce ad arricchirsi di greggi, di schiavi e di schiave, prima di intraprendere il viaggio di ritorno verso il padre Isacco. Si può notare quindi quanti intrecci ci sono dietro le storie degli allevatori di mucche e degli allevatori di pecore: Lia e Rachele, le vicende familiari, il racconto gustoso del matrimonio con l’imbroglio, l’imbroglio di Giacobbe a Labano, ecc, ecc.
Tutto questo, per dimostrare che Giacobbe, il “nonno” del popolo di Israele, era più in gamba di tutti e, dopo avere lavorato per tanti anni per Labano, è riuscito a tornare a casa con greggi numerosi e molte altre ricchezze. Analogamente, le “nonne” del popolo di Israele erano le donne più belle. Il popolo di Israele dei tempi del narratore somiglia ovviamente ai propri “nonni” ed alle proprie “nonne”!
RIFLESSIONI PER LA VITA
- la ricchezza dell’innamoramento (e del fondamento della coppia)
- la giustizia della provvidenza (chi la fa, l’aspetti… oppure pan per focaccia)
- la forza della promessa (la fedeltà di Dio e dell’uomo)
- il simbolo del pozzo e dell’acqua come vita di Dio (battesimo…)
- eros/thanatos (amore/morte)
Comunità San Barnaba/Ognissanti Percorso sul ministero della coppia 5
LA TENTAZIONE DELL’ONNIPOTENZA
«Un tardo pomeriggio Davide si mise a passeggiare sulla terrazza della reggia. Dalla terrazza vide una donna che faceva il bagno, bellissima» (2 Sam 11,2). L’incipit di questo racconto, affascinante e tra i più tremendi della Bibbia, è dominato dall’aggettivo ‘bellissima’. La donna viene notata dal re per la sua bellezza, che per Davide diventa la sola dimensione che conta. Davide, che probabilmente conosceva già quella donna, perché moglie di uno dei suoi primi ufficiali, la scorge, la guarda, e non la riconosce: «Davide mandò a informarsi sulla donna. Gli fu detto: “È Betsabea, figlia di Eliàm, moglie di Uria l’Ittita”» (11,3). E decide di consumare quella cosa bellissima. Il peccato di Davide – e i nostri – non inizia quando viene colpito da quella grande bellezza, neanche quando ne viene travolto nelle sue viscere. Il peccato si compie quando decide di mandare i suoi servi a prenderla. Passa un lasso di tempo tra l’emozione di Davide e la sua scelta, sufficiente per fare di quella azione una scelta intenzionale e quindi responsabile. Non è un raptus. Davide decide di cedere alla tentazione. Il problema morale delle tentazioni (grande parola, oggi dimenticata) non sta nella loro esistenza, né nel sentirle nella carne e nel cuore. La responsabilità etica inizia quando decidiamo che cosa fare del “materiale tentatore” che ci ritroviamo dentro. Davide decide di mangiare il frutto proibito, e lì pecca.
Il testo non dice nulla su come reagì Betsabea di fronte a Davide. Non sappiamo se urlò, se subì violenza o se invece acconsentì (non mancano commentatori che insinuano una complicità di Betzabea nel suo fare il bagno dove poteva essere vista: colpevolizzare le vittime e le donne per renderle (co)responsabili della loro sventura, è una antica strategia per assolvere i carnefici). Davide manda «a prendere» la donna come si manda a prendere una merce da consumare per soddisfare bisogni. Sapere che Betzabea era una donna sposata non ebbe nessuna conseguenza sul suo comportamento.
I veri potenti sono così: trasformano immediatamente desideri in azioni, perché non vedono ostacoli tra il volere e l’ottenere. La vera tentazione dei potenti è sentirsi onnipotenti, ma è anche in questo delirio di onnipotenza che inizia il loro declino.
LA RISPOSTA DEL POVERO
I “prezzi” entrano però in gioco quando qualcosa si complica dopo i fatti: «Sono incinta» Betzabea mandò a dire a Davide (11,5). Diversamente dalle automobili e dagli orologi, gli esseri umani sono vivi. I potenti possono abusare di loro e usarli, e lo fanno spesso. Ma la vita è una cosa molto seria, e ha una sua misteriosa libertà e incontrollabilità. I peccati toccano e feriscono realtà vive, e quindi fragilissime e insieme fortissime. I potenti, e spesso anche noi, quando facciamo del male a qualcuno che non riconosciamo e umiliamo, che usiamo come un prodotto di consumo, vorremmo che dopo che il fuoco della concupiscenza ha consumato le sue vittime non resti nessuna traccia di quei desideri e azioni sbagliate. Ma la vita è più grande dei desiderata dei potenti, anche di quelli dei re. E va avanti, genera i suoi frutti, ha il suo decorso naturale. Questa forza della vita è spesso l’unica difesa del povero, che ha solo il suo corpo e il suo essere vivo per parlare. Ecco perché l’unica parola che il testo in questa scena tremenda mette sulla bocca di Betzabea è «sono incinta», la sola parola efficace che lei riesce a dire. I poveri dicono che sono vivi parlando con il loro corpo, con le loro ferite, con i bambini nel seno delle donne. La vita e il corpo conoscono una misteriosa libertà, che qualche volta riesce a ottenere l’obbedienza anche dei potenti. Il grembo di Betsabea fece prendere coscienza a Davide che quella cosa «bellissima» era una persona viva.
LA SLEALTA’ DI DAVIDE E LA FEDELTA’ DI URIA
La Bibbia sa che la grande tentazione che proviamo di fronte a una vita che non obbedisce alla nostra volontà di dominio, è ucciderla. Come è già avvenuto molte altre volte quando si era trovato nei guai, Davide è geniale nel cercare subito vie di fuga. La più ovvia e semplice, molto comune in storie simili: «Allora Davide mandò a dire a Ioab: “Mandami Uria l’Ittita”. Davide disse a Uria: “Scendi a casa tua e làvati i piedi [genitali]”». (11,6-8). Davide cerca di regolarizzare la gravidanza di Betsabea con un incontro coniugale post. Ma ecco un secondo imprevisto che manda in crisi quella copertura: «Uria dormì alla porta della reggia e non scese a casa sua» (11,9). Davide insiste, e indaga sulle ragioni di quella strana non-discesa a casa: «Uria rispose a Davide: “L’arca, Israele e Giuda abitano sotto le tende, (…) e io dovrei entrare in casa mia per mangiare e bere e per giacere con mia moglie? Per la tua vita, per la vita della tua persona, non farò mai cosa simile!”». (11,10-11). La fedeltà di Uria a Davide diventa il principale problema del re. La fedeltà genuina possiede un meccanismo di auto-protezione contro la sua manipolazione. Non possiamo usare la fedeltà delle persone con cui viviamo per proteggere le virtù e anche per nascondere i peccati. Sta proprio qui la differenza tra fedeltà vera e la falsa fedeltà ruffiana. La fedeltà vera non è double face. Non sarà mai un amico vero a coprire i nostri tradimenti coniugali, e se lo fa sta iniziando a tradirci, diventando un “amico” che protegge i nostri vizi, non più le nostre virtù. In questo episodio, Uria l’Ittita, un immigrato di seconda generazione (Uria è un nome ebreo bellissimo: “YHWH è la mia luce”), che lavora a servizio di un popolo non suo, va incontro al suo triste destino per una fedeltà leale a un re straniero. Il suo atto di lealtà più alto divenne causa della sua morte slealissima. Infatti, visto il suo duplice fallimento di copertura (11,13), «Davide scrisse una lettera a Ioab e gliela mandò per mano di Uria. Nella lettera aveva scritto così: “Ponete Uria nel campo della battaglia più dura; poi ritiratevi da lui perché resti colpito e muoia”» (11,14-15). Qui la stella di Davide si spegne, smette di brillare e scende la notte su Gerusalemme. Davide, come Caino, colpisce suo fratello innocente e mite «nei campi». Uria si avvia verso il campo di battaglia con in mano il dispaccio della sua esecuzione. È molto forte e tragico immaginare questo soldato, straniero di origine e suddito leale, andare ignaro incontro alla sua morte, con un messaggio contenente il suo triste destino, scritto dalla mano di colui al quale aveva donato fedeltà e dedizione. Uria poteva pensare che quella lettera contenesse una lode per la fedeltà mostrata al re, e invece conteneva la sua condanna. L’avrà, forse, guardata e riguardata con orgoglio e commozione, immaginandone molte volte in cuore suo il contenuto.
LE LETTERE DELLA NOSTRA VITA
Molte persone, tutti i giorni, sono portatrici di messaggi simili a questo di Uria, e come lui non lo sanno. Spendiamo fedelmente la vita in un’impresa e un giorno quell’azione che noi viviamo come il culmine della nostra lealtà produce il nostro licenziamento, consegnatoci in una busta che noi pensavamo fosse la nostra promozione. Denunciamo pubblicamente una violenza per lealtà verso noi stessi alle istituzioni e lì inizia un calvario nella solitudine più profonda, scritta proprio sul retro di quel premio al valore civile. Diciamo una verità scomoda perché leale a un amico e lì lo perdiamo per sempre, e quel suo biglietto di grazie diventa la lettera di addio. Dedichiamo gli anni migliori della vita per crescere onestamente un figlio, e il giorno in cui finalmente lo generiamo alla libertà vera lui la usa per perdersi e smarrirsi: noi leggiamo il Vangelo, lo attendiamo per anni sull’uscio di casa, ma il nostro figlio non torna. Alcune di queste lettere non le abbiamo mai aperte, e solo con questa ignoranza provvidenziale siamo stati capaci di continuare il cammino che andava dalla reggia del re al campo di battaglia. Anche noi guardiamo queste lettere con orgoglio, ci commuoviamo, e poi continuiamo a camminare verso il nostro destino, quasi sempre ignoranti. E come Uria, combattiamo le nostre ultime battaglie con la stessa lealtà di sempre, e forse con un entusiasmo maggiore, incoraggiati dalla lettera che abbiamo consegnato. L’ultima fedeltà di Uria l’Ittita fu non aprire quella lettera, non togliere quel sigillo, e così combattere con orgoglio la sua ultima battaglia. Non è bene aprire tutte le lettere che la vita ci mette nelle mani. Soprattutto quelle decisive non sono destinate a noi. Noi dobbiamo solo consegnarle, anche se molte sono state scritte e ricevute da chi non ci amava. La Bibbia ha aperto la lettera di Uria l’Ittita e ora ce la sta leggendo, per sostenere i nostri cammini con le lettere chiuse nelle mani. E soprattutto a dirci che almeno una lettera scritta da qualcuno che ci vuole bene esiste, ed è quella più importante. Quella lettera siamo noi, una lettera viva che, terminato il cammino, consegneremo in mani buone, senza averla letta lungo la strada.
IL RIMPROVERO DI NATAN E L’UMILE PENTIMENTO DI DAVIDE
Davide pensa di averla passata liscia, si concentra sulle cose belle che lo circondano e sui successi delle sue imprese militari. In realtà tutti sanno della sua scelta, il mormorio che egli voleva evitare ora è un fiume in piena e Davide rischia di perdere la fiducia dei suoi. Natan il profeta lo aspetta al varco e lo pone di fronte al suo sbaglio: senza offenderlo, lo invita a giudicare lui stesso la sua iniqua condotta, attraverso una parabola: un uomo ricco, padrone di bestiame minuto e grosso, ricevette una visita e risparmiando di ammazzare uno dei suoi molti capi di bestiame preparò una vivanda per l’ospite uccidendo l’unica pecora di un uomo povero, pecora che il povero uomo aveva allevato in casa amandola come una figlia. Indignato per la cattiveria di quel ricco Davide sentenziò che un tale individuo era reo di morte ed ecco che Natan lo sorprese dicendo: «Tu sei quell’uomo!»
Davide è un re immenso: non perde la pazienza con Natan, né rifiuta, messo alle strette da Dio, di riconoscere l’iniquità della sua condotta. Il salmo 50, che secondo la tradizione scaturisce dal cuore pentito di Davide, ci dà la misura della sua grandezza. Davide è eccessivo in tutto, iracondo, vendicativo, ma anche appassionato e devoto, pieno di autenticità e bruciante di passione. Dio ama Davide proprio per questo carattere impulsivo. Dio, nella Bibbia, sembra preferire le persone imperfette ma vere a quelle perfettine ma fredde. Davide è solo il primo di una lunga serie di persone che vivono la propria fede con intensità, rischiando di sbagliare e sbagliando, certo, ma sempre per eccesso, mai per tiepidezza o per difetto. Che sia questa passione che manca alla nostra fede?
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