21 febbraio 2016 a Bose
Abbiamo oggi un’occasione di sosta con l’impegno di andare a toccare alcuni temi essenziali della vita umana. Abbiamo bisogno di andare alla sorgente dei significati della vita e anche di una rilettura degli stessi temi, da rivedere alla luce dell’esperienza della vita, che cambia e matura nel tempo. Non basta leggere il Vangelo, ma bisogna farlo passare attraverso la vita.Sofferenza, malattia, morte che identifichiamo con la parola “male”, sono realtà che vanno rivisitate e interpretate nella logica evangelica.
Paul Ricoeur, filoso cristiano francese, ricorda che ciò che rende difficile l’enigma del male è mettere insieme realtà disparate come sofferenza, morte e peccato. Peccato in specie viene definito come “male”. Dobbiamo indagare in profondità su questo enigma.
1.1. La salute fisica può essere insidiata da malattie leggere o più minacciose, dal morbo della vecchiaia e quindi dalla morte. Una persona si imbatte con questi mali che coinvolge il corpo. Spesso tendiamo a rimuoverli dalla nostra vita. La pulsione del male fa rimuovere il male. Nella vecchiaia quello che prima da giovani e adulti non era problema, nella vecchiaia diventa qualcosa cui non è possibile sottrarsi. Sottrarsi è vivere una vita di illusioni. Tutto questo ‘male’ rimane un enigma: non basta dire ‘si sa’, da momento che nella vita si nasce, si cresce e si muore...: a dimostrazione di ciò, quando uno lo dice, non lo dice mai di sé, ma sempre dell’altro; nei confronti della vecchiaia e della morte si diventa ipocriti, non si vuol affrontare il problema, ma inesorabilmente ci si imbatte in queste realtà.
1.2. C’è anche un altro modo di evidenziarsi del male: il venir meno dell’intelligenza e della relazione, con chiaro riferimento alle malattie psichiche e affettive. Pensiamo ad esempio alla depressione, agli stati di ansia, di panico: sono malattie forti e difficili sia per chi le vive, che per chi le deve accompagnare o vivere da vicino.
1.3. Altre persone soffrono per il male causato dagli altri: calunnie, offese, schiavitù....
L’uomo dunque è una creatura minacciata, con la viva coscienza di conoscere queste minacce (non come gli animali che li subiscono e basta). Da qui nasce la domanda: ‘perché?’. Infatti sentiamo il male come qualcosa di non adeguato alla vita. Possiamo dire, come sostengono i paleontologi, che quando l’uomo inizia a seppellire i morti, ha inizio il processo di umanizzazione del mondo: lo si constata nelle posizioni in cui vengono messi i morti, nei vestiti, negli oggetti che vengono messi accanto, nelle tombe... quasi come affermare che la morte non toglie la vita. A noi fa orrore un cadavere abbandonato per strada. Perché sentiamo la morte come un’ingiustizia.
Dunque: da dove il male? Perché il male? Che cosa è il male? Risposte non ce ne sono; le cerchiamo, ma non ci sono. La sofferenza fa parte della vita: come c’è l’homo sapiens, l’homo faber... così c’è l’homo patiens (sofferente); la vita umana contiene anche questo aspetto. La verità è che la sofferenza è quotidiana, che la vita è un duro mestiere e tutti sappiamo che la vita ha una fine. Ogni creatura è colpita e la fine arriva per ogni uomo. Perché? Da millenni di ricerca spirituale, mai è venuta una risposta. Le risposte che si danno non sono altro che dei calmieri. Il Buddismo ad esempio affronta il problema dicendo che il limite, la sofferenza, il dolore... fa parte della vita e l’unica soluzione è la capacità di sopportazione e accettazione...ma anche in chi pratica questa religione di fronte alla morte c’è ribellione, non accettazione.
1.4. Nella nostra religione si propone un’elaborazione sulla morte che parla di un regno luminoso iniziale, che poi viene meno con l’introduzione del peccato, da cui nascono sofferenza e morte. Ma la Bibbia non dice questo. Non dà soluzioni. Il male è inerente a questo mondo e chi pensa ad un’armonia, questa non riguarda un passato nostalgico, ma un futuro luminoso che verrà: il mondo della pace, della gioia, senza lacrime, senza morte. Ma questo sarà il paradiso che verrà, quella che chiamiamo vita eterna.
Ciascuno di noi viene al mondo, ma non sappiamo quando e perché... Così, senza poterne dare ragione, il male è dentro la vita umana. Pensiamo all’esempio del bambino, che già da piccolo piange per lamentarsi di qualcosa che non ha, poi non accetta che i giochi siano dati agli altri e scopre gli altri come concorrenti da combattere... e fin da bambini i genitori insegnano a rinunciare a condividere. Neppure Gesù ha dato una risposta al male. Nella Bibbia non si parla dell’origine del male (anche l’idea degli angeli ribelli che condizionano Adamo ed Eva è una favola inventata per dare una spiegazione all’origine del male... ma non è così). Resta l’oscurità sulla presenza del male. Quando la Bibbia vuol parlare del male, non parla mai della realtà in sé, ma di coloro che vivono queste cose negative, dando però un aiuto per attraversarle. Non c’è spiegazione al male, alla morte, alla malattia... Dobbiamo anche difenderci da certi schemi religiosi, inventati soprattutto per difendere Dio; molti infatti pensano che sia stato Lui a introdurre il male. No, non può essere che un Dio voglia il male. Noi nasciamo urlando, la madre soffre le doglie del parto; la nascita stessa è espulsione da un mondo un cui la piccola persona sta bene e si sente protetta.
La sofferenza, la malattia, la morte... sono uno scandalo per gli uomini. C’è una domanda che ritorna spesso: Se Dio è buono, come può permettere la sofferenza? Altri asseriscono che non credono in Dio proprio per la sofferenza presente nel mondo. Possiamo essere liberi di affermare che Dio non c’è, può esistere la convinzione che Dio non ci sia, ma questo non è possibile verso le realtà concrete della nostra vita, come la malattia e la morte. Dov’era Dio ad Auschwitz, nei Gulag... (dovremmo chiederci “dov’era l’uomo”). Tanti riferimenti rimandano dunque all’enigma del male.
Sicuramente, per noi cristiani, è necessario prima di tutto superare e lasciare alcuni modi di pensare. Un certo cristianesimo devoto ha fatto tanti danni, allontanando molta gente dalla fede. Siamo su un crinale: oggi abbiamo molte opportunità sul paino della fede, ma possiamo anche mettere in atto azioni che allontanano dalla fede (esempio della preghiera dell’alpino). Dobbiamo imparare a scindere il cristianesimo del campanile da quello del vangelo.
3.1. La chiesa spesso insegna che la sofferenza è mandata da Dio. Non è vero che il Signore manda la sofferenza per il nostro bene. Dire che la sofferenza è mandata per purificare i peccati è una bestemmia! Diciamo questo perché non abbiamo ancora una cultura del dolore. Quando la Bibbia parla delle “punizioni di Dio”, è da leggere e interpretare alla luce del Vangelo. Nelle nostre liturgie infatti intronizziamo il Vangelo non la Bibbia. Ricordiamo l’episodio del cieco dalla nascita: “ha peccato lui o i suoi genitori... per essere cieco”?. Una persona non ha un male perché ha un peccato da scontare. Questo è un meccanismo diabolico. Non possiamo imputare il male a Dio. Il male fa parte della natura umana, è una condizione naturale, il male è dentro la condizione umana: c’è un mondo prepotente, corrotto, ladro, bugiardo e c’è anche chi fa il bene e continua a lottare per promuoverlo.
3.2. Dio manda il male per il nostro bene, perché vuole insegnarci qualcosa, uno scopo. E’ un’altra deformazione sul senso del male.
3.3. Dio manda il male per espiare i peccati (“ con la tua sofferenza non vai più in purgatorio”). Il cardinal Villot ha affermato: “noi preti sappiamo pronunciare belle frasi sulla sofferenza, sulla malattia e sulla morte; io voglio dire ai preti di non dire più niente..., imparino ad accettare l’enigma del mistero... l’unica cosa che occorre è donare la propria presenza”. La sofferenza deve trovare una via che la porti al mistero, con davanti l’esempio di Gesù, che apre la strada: anche Lui infatti aveva paura della passione, ma la accetta, non si lascia tentare dal cercare di evitarla. Gesù è morto, come noi, in una solitudine enorme, abbandonato, giovane poco più che trentenne, attorniato da briganti e nemici... in una situazione che sembrava tutto un fallimento.
3.4. Molti preti dicono agli ammalati: offri le te sofferenze. No! E’ un grave errore. Gesù offre a Dio tutta la sua vita e nella vita c’è anche la sofferenza insieme alle cose belle. A Dio va dato tutto: mi abbandono totalmente a Te.
Può essere convincente l’apoftegma di san Girolamo: “Ben prima di diventare un sapiente e stimato esegeta, brillante consigliere di nobildonne dell'alta società romana, Girolamo aveva tentato un periodo di vita da eremita in una grotta del deserto di Giuda. Con la presunzione tipica dell'età, il giovane Girolamo si era dedicato con ardore alle molteplici forme di ascesi allora in uso tra i monaci. Ma i risultati si facevano attendere: il tempo gli avrebbe fatto presto capire che la sua vera vocazione era altrove nella Chiesa e che il suo soggiorno tra i monaci della Palestina ne costituiva solo il preludio. Tuttavia Girolamo doveva ancora imparare molte cose e intanto, da giovane novizio si trovava immerso nella disperazione: nonostante i suoi sforzi generosi, non riceveva alcuna risposta dal cielo. Andava alla deriva, senza timone, in mezzo alle tempeste interiori, al punto che le vecchie tentazioni, già così familiari, non tardarono a rialzare la cresta. Girolamo era scoraggiato: cosa aveva fatto di male? Dov'era la causa di questo cortocircuito tra Dio e lui? Come ristabilire il contatto con la grazia? Mentre Girolamo si arrovellava il cervello, notò all'improvviso un crocifisso che era comparso tra i rami secchi di un albero. Girolamo si gettò a terra e si percosse il petto con gesto solenne e vigoroso ( è in questa posizione umile e supplicante che lo raffigura la maggior parte dei pittori). Subito Gesù rompe il silenzio e si rivolge a Girolamo dall'alto della croce: «Girolamo - gli dice - cos'hai da darmi? Cosa riceverò da te?». Girolamo non esita un attimo. Certo che aveva un sacco di cose da offrire a Gesù: «Naturalmente, Signore: i miei digiuni, la fame, la sete. Mangio solo al tramonto del sole!» Di nuovo Gesù risponde: «Ottimo Girolamo, ti ringrazio. Lo so, hai fatto del tuo meglio. Ma hai ancora altro da darmi?» Girolamo ripensa a cosa potrebbe ancora offrire a Gesù. Ecco allora le veglie, la lunga recita dei salmi, lo studio assiduo giorno e notte della Bibbia, il celibato nel quale si impegnava con più o meno successo, la mancanza di comodità, la povertà, gli imprevisti che si sforzava di accogliere senza brontolare e infine il caldo di giorno e il freddo di notte. Ad ogni offerta, Gesù si complimenta e lo ringrazia. Lo sapeva da tempo: Girolamo ci tiene così tanto a fare del suo meglio! Ma ad ogni offerta, Gesù, con un sorriso astuto sulle labbra, lo incalza ancora e gli chiede: «Girolamo, hai qualcos'altro da darmi?» Alla fine, dopo che Girolamo ha enumerato tutte le cose buone che ricorda e siccome Gesù gli pone per l'ennesima volta la stessa domanda, un po' scoraggiato e non sapendo più a che santo votarsi, finisce per balbettare: «Signore, ti ho dato già tutto, non mi resta davvero più niente!». Allora un grande silenzio piomba nella grotta e fino alle estremità del deserto di Giuda; Gesù replica un'ultima volta: «Eppure Girolamo hai dimenticato una cosa: dammi anche i tuoi peccati affinché possa perdonarteli...».
Dobbiamo dunque chiedere luce nell’attraversare la sofferenza. L’eutanasia ad esempio evidenzia la coscienza di non voler essere legati a nessuno e di non volere il legame con nessuno... questo non è vivere la sofferenza nella logica cristiana.
1.1. E’ necessario innanzitutto partire dalla grammatica umana della sofferenza. Essa fa parte della natura umana; qualcuno potrebbe vivere nell’illusione di essere esente da questa realtà (ricchi, sani...). Nella vita sentiamo il bisogno di etichettare le situazioni, come ad esempio essere poveri..., ma questa situazione potrebbe cambiare nel percorso della vita, da poveri a ricchi o viceversa; così come l’essere sani potrebbe cambiare quando si incontra una malattia. Un primo passo che dobbiamo compiere è di non essere agnostici, cinici verso la malattia, ma riconoscere che possiamo incontrare sofferenza o malattia.
2.1. Dobbiamo lottare il più possibile contro la malattia, resistere all’incalzare della sofferenza, metter in atto tutto quello che possiamo, però nella chiara consapevolezza di non poter vincere il male. Ci sono persone attanagliate dalla malattia che spesso si lasciano andare... capita anche che i medici non lottino più, soprattutto verso persone non importanti o anziane o che non hanno privilegi. Spesso non si fa tutto: in queste situazioni la sofferenza si aggrava..., l’impotenza e la malattia si aggravano, aumentando il carico della sofferenza. Non è una consapevolezza da forzare o accelerare, ma da sostenere e guidare.
2.2. La seconda indicazione è che malattia e sofferenza vanno coniugate con un umanesimo cristiano. L’umanesimo cristiano chiede di saper educare alla consapevolezza di una malattia più o meno grave. La medicina è un’industria, dobbiamo essere vigilanti ad esempio nelle cure che vengono proposte. E’ necessario umanizzare la malattia. Dopo l’accettazione bisogna passare all’umanizzazione. E’ uno sforzo grande, ma bisogna trovare la strada per attraversare la malattia. Il malato deve sentire umana anche la sua dimensione di malato. Può succedere che questa situazione venga nascosta o delegata ad altri; è giusto sostenerla (vedi ad es. il lavoro delle badanti), ma non allontanarla.
2.3. Ciò che diventa importante nell’umanizzare è la relazione. Il malato ha bisogno di sentire che la sua malattia e la sua morte riguardano qualcuno; spesso gli ammalati affermano che ‘la vita è una vigliaccata, una menzogna...’.
Il primo atto che Dio fa all’uomo è quello di vestirsi, quando l’uomo si riconosce nudo; coprire il malato salvaguardia la dignità della persona. La demenza senile (alzaimer) può rompere la relazione in quanto la mente del malato è alterata. Ma anche in questo caso si possono usare modalità di relazione gestuale, come una carezza, un abbraccio, la mano stretta... Occorre la capacità di rinnovare la relazione e l’amore, nella logica cristiana dello sforzarsi di amare e accettare di essere amati.
2.4. Dobbiamo dire una parola anche sull’elaborazione del lutto. Ci dobbiamo dare ragioni per continuare a vivere; se non ce ne diamo, la sofferenza rischia dai farci diventare disumani. Anche all’intero della malattia Dio è accanto a noi, non per togliercela, ma per darne un senso e attraversarla, come afferma il Salmo 90 “con chi mi è fedele nell’angoscia, Io sono con lui”. Dio non ci toglie il dolore ma lo accompagna e chiede a noi di accompagnarlo. Il dolore non è spogliarci della vita, non è togliere qualcosa. Anche gli amori sbagliati possono recare dolore, ma non vanno persi... sappiamo bene che il cuore umano può provocare ingiustizie, ma quelli che abbiamo amato non li perderemo: questa non è una certezza, ma è una convinzione maturata nel tempo. Anche la fede, Dio, la vita eterna, l’aldilà... non sono certezze ma convinzioni serie... Chi dice il contrario non è realista, ma ragiona da pazzo.
3.1. Saper vedere. Sono più facilmente i peccati di omissione che ci condannano, non le azioni, molto rare a dire il vero in una persona. Il Vangelo dice: “venite benedetti perché avete visto chi aveva fame... e andate lontano maledetti perché non vi siete accorti di chi aveva bisogno...” (Mt 25). Non saper vedere ci allontana dalla persona sofferente.
3.2. La prossimità. Posso vedere ma non fare nulla. Come il sacerdote e il levita della parabola. Finchè il malato resta lontano, possiamo provare dispiacere, ma questa non è vicinanza. Dobbiamo andare a trovare il malato, così che possa pensare “io importo ancora a qualcuno”. La prossimità, come già ricordato, si gioca non solo con le parole, a volte inutili e scontate, ma anche con il linguaggio del corpo: non toccare non vale per chi è malato, anzi è un’esigenza.
3.3. Fare tutto quello che è in nostro potere (analisi, medici, cure adeguate, assistenza...). Anche Gesù lotta di fronte al calice che deve bere nella passione e nella croce...
4.1. Innanzitutto la malattia riguarda tutta la persona. L’accompagnamento deve essere totale. Se è vero che l’ammalato deve essere guarito nel corpo, non può essere ignorato tutto il resto della sua persona, anima e psiche. La malattia chiede un accompagnamento integrale. Le cure palliative in questo senso sono in molti casi un ottimo sostegno (ma non sempre funzionano).
4.2. La dignità umana è imperitura. Si vive una volta sola e la sofferenza non può far perdere la sua dignità. La persona merita sempre rispetto.
4.3. Le cure palliative: fin che c’è vita, c’è speranza. Bisogna evitare di far soffrire un malato. E’ importante in questo senso il testamento biologico della persona, che lontano dalla malattia, indica se vuole evitare l’accanimento terapeutico. I parenti spesso non sanno cosa fare. Il curante deve semplicemente preoccuparsi di sollevare la sofferenza. Bisogna lasciare perdere strumenti inutili, che non servono a nulla. Diciamo: eutanasia no, ma anche nessun accanimento terapeutico. Il dolorismo è una cosa che la chiesa condanna (vedi gli esempi del patriarca Atenagora, di Papa Giovanni Paolo II, del Card. Martini...). E’ lecito chiedere cure adeguate antidolorifiche, soprattutto giungere ad alleviare le sofferenze fino alla sedazione profonda, continuando fino alla morte (questo dicono i documenti della Chiesa)
Dobbiamo renderci conto che sofferenza, malattia, morte fanno parte della nostra vita. Da qui comprendiamo che la fragilità può essere un valore. La fragilità infatti denuncia la deriva individualistica se viene dimenticata. La fragilità fa parte delle condizioni che dobbiamo vivere, non come uno scacco della vita, ma come una dimensione che fa parte della nostra vita. Soffrire fa parte della vita. Non si soffre anche per amore? Anche l’amore contiene la logica della sofferenza.
La sofferenza e la fragilità aiutano a conoscere e ad accogliere l’altro. Non è possibile “andare sempre d’accordo”. Nella vita ci sono conflitti, non si va d’accordo sempre, ma ciò che è importante è vivere soffrendo insieme (diventando più buoni, più aperti, rinnegare la chiusura nel proprio egoismo e orgoglio...).
Sofferenza, malattia e morte non possiamo né evaderli, né dominarli. Dobbiamo prepararci ad attraversarli, salvando la relazione e l’amore delle relazioni, soprattutto quando si è anziani. In tutto questo la fede non è stata toccata? Dobbiamo affermare che il cristianesimo o è umano o non è cristianesimo. Rimane forte la convinzione che nulla andrà perso, anche ciò che sofferenza, malattia e morte sembrano togliere.
La trasfigurazione è sintesi e simbolo del cammino quaresimale/ pasquale; non presenta soltanto i tratti del divino, ma anche quelli della quotidianità. Dalle tentazioni nel deserto alla preghiera di Gesù sul monte: i due momenti non possono essere separati, anche nella nostra vita. Da una parte Gesù si oppone al tentatore e dall’altra Gesù è identificato dalla Parola divina “questi è il mio figlio”. Siano condizionati dalla possibilità di compiere il male, ma ci è offerta d’altro lato la possibilità di resistere al male attraverso la preghiera. La preghiera ci rende immagine di Gesù. Il motivo? O siamo trasformati dal male o lo siamo dal bene. Quale trasformazione scegliamo?
La preghiera non è semplice devozione, ma diventa capacità di sopravvivenza al male. Rinunciare a pregare ci porta a cadere nella tentazione e a non avere più speranza... a non credere più. A volte pensiamo che non serva a nulla il trasporto spirituale. La preghiera, la lectio divina, la lotta spirituale, il discernimento divino... sono realtà necessarie per noi, come l’aria che respiriamo. La preghiera non è un dovere o un atto edificatorio da compiere, esemplare per gli altri: questo è il rischio ipocrita della preghiera. Essa è esperienza di forza interiore e liberazione.
(A questo punto la lectio ha analizzato gli esempi della preghiera di Mosè e Paolo indicati nelle prime due letture della liturgia della seconda domenica di quaresima).
Attualizzazione: noi non sappiamo come la preghiera possa trasformarci. La trasformazione avviene senza che possiamo rendercene conto, come avviene per il seme sotto terra (Marco 4,27). Silenzio, ascolto della Parola, preghiera sono le tre indicazioni spirituali che possiamo cogliere nel brano della trasfigurazione. E’ interessante notare come la forza della preghiera e dell’invisibile lascia tracce sul corpo umano, che rappresenta così qualcosa dell’azione di Dio, come il volto luminoso di Gesù sul monte o di Mosè nel dialogo con Dio. Il credente a viso scoperto riflette lo splendore di Dio come uno specchio. La comunione con Dio diventa visibile sul volto: nella tua luce vedremo la luce, verremo alla luce”. La preghiera esige lotta con il proprio corpo: i discepoli si addormentano (come anche nell’orto degli ulivi). La preghiera esige ascolto di qualcosa che viene dall’alto, perché possa tradursi in azione umana. La preghiera chiede silenzio, anche quando esso è faticoso e può diventare un ostacolo. Infine Gesù resta solo: l’ultimo elemento della preghiera è la solitudine, quale fondamento per la comunione con il divino.
Messaggio di Papa Francesco per la Quaresima
Sussidio per la preghiera in famiglia in questa Quaresima
Pillole di catechismo per bambini e ragazzi
Lettera del Vescovo con supplica a Maria Vergine delle Grazie
3° domenica di Quaresima- Teniamo unite le nostre Comunità
Digiuno e Parola - Itinerario quaresimale col vescovo Marco
4° domenica di Quaresima - Teniamo unite le nostre Comunità
Proposte ai ragazzi per vivere la Pasqua
5° domenica di Quaresima - Teniampo unite le nostre comunità
Settimana Santa - Teniamo unite le nostre Comunità
La settimana santa in famiglia
Sabato 21 febbraio 2015 una cinquantina di persone tra comunità capi (scout) e adulti della nostra unità pastorale hanno accolto l'invito del parroco, Don Riccardo, per raggiungere una piccola frazione del comune di Magnano (Biella), Bose, adagiata su estesi prati verdi e dominata da alti monti innevati.
Lá, vive, lavora, prega una comunità di monaci e monache appartenenti a chiese cristiane diverse, "che cercano Dio nell'obbedienza all'evangelo, nella comunione fraterna, nel celibato; comunità che, presente nella compagnia degli uomini, si pone al loro servizio".
Il monastero è guidato dal priore Enzo Bianchi.
È periodo di quaresima e, per noi cristiani, è necessario ripensare alla nostra adesione al Vangelo, rimodellare i nostri comportamenti sull'esempio di Gesù ed ecco...
padre Bianchi propone a tutti coloro che sono pervenuti a Bose, la 1' riflessione quaresimale di quest 'anno, sul tema "la carità", approfondendo la parabola del Buon Samaritano,
Siamo ritornati nelle nostre case col cuore in pace e con la rinnovata certezza che amare Dio e amare il prossimo è un "tutt'uno".
Un buon programma per la quaresima!
Alcune foto scattate presso la Comunità di Bose dove abbiamo seguito la
Don Riccardo mette a disposizione di tutti coloro che desiderano vivere più profondamente il tempo quaresimale gli appunti che ha ha fatto propri
a cura del monaco LUCIANO MANICARDI (meditazione rivolta anche ai fratelli monaci)
Il tema di meditazione che suggerisce il testo delle tentazioni di questa prima domenica di quaresima è quello della solitudine. La solitudine di cui si parla non è quella costretta, patologica, di chi non è inserito, ma di quella scelta, voluta, ricercata. Anche se è una scelta di vita, tuttavia, spesso la rifuggiamo, la rifiutiamo e perdiamo l’occasione per cogliere la presenza del Signore che ci parla nel segreto. Occorre conoscere la solitudine, frequentarla.
Gesù entra in totale solitudine nel deserto, inizia il suo cammino di obbedienza a Dio nella solitudine. Egli sta, abita nel deserto che diventa così un’apertura verso il nostro mondo interiore.
La solitudine si popola di “bestie” strane che rappresentano le nostre paure, i nostri fantasmi. L’uomo deve imparare a conoscerli per poterli dominare. Il serpente è una tentazione sempre presente nell’uomo. Il male è sempre opera dell’uomo ed è sempre presente nella nostra vita.
Marco racconta che Gesù sta nel deserto senza fare niente perché in realtà il deserto è insieme uno spazio e un tempo nel quale sostare. E’ necessario che “stiamo” nella solitudine, invece spesso tendiamo a colmarla con pensieri, immagini che ci impediscono di conoscere e toccare con mano la nostra angoscia, la noia, la malinconia.
Dobbiamo fare silenzio dentro di noi per far parlare le nostre angosce. Solo se passiamo attraverso la brutalità della solitudine, possiamo uscirne fortificati.
Nel deserto Gesù entra a contatto con l’invisibile che è ciò che guida il nostro sguardo sul mondo, è un misto di sensazioni che influisce sulle nostre reazioni nei confronti degli altri.
Così la solitudine ci aiuta a mettere ordine nel nostro caos interiore e diventa condizione indispensabile per affrontarlo. Gesù esce dal deserto rafforzato, trasformato e può parlare con più autorevolezza.
Egli ricerca la solitudine proprio nei momenti più difficili della sua vita.
Possiamo definire l’autorevolezza come un’essenzialità, uno spogliamento, una ricchezza interiore.
Gesù è separato dalle persone ma nello stesso tempo è vicino a tutti.
Gesù viene “spinto” nel deserto dallo Spirito, non è una sua iniziativa, è costretto perché lo Spirito a volte ci chiede ciò che non vogliamo. E’ volontà di Dio che a volte confligge con la nostra volontà.
In questo senso c’è violenza nella Scrittura dove Dio strappa Abramo dalla sua terra verso un luogo sconosciuto.
Seguire lo Spirito a volte ci fa conoscere le forze opposte, a volte i momenti positivi di serenità. Dobbiamo conoscere le pulsioni che ci attraversano.
Una persona che vive nella spiritualità ha uno sguardo mite, chiaro, sereno sul mondo.
Nella solitudine il pensiero si insinua nella mente dell’uomo e lo alletta.
Dobbiamo imparare a governare e combattere i pensieri che ci abbagliano.
La solitudine è l’ambito di resistenza di Gesù, dove egli si oppone al male.
La solitudine è custodia dell’unicità della persona e della sua unificazione interna, della sua non- doppiezza, ma della fermezza nella tentazione.
a cura del Priore ENZO BIANCHI
La quaresima è un tempo favorevole in cui Dio ci fa misericordia, ci chiama a conversione e ci dà la forza per accogliere tutto questo. Affrontiamo il tema della carità (e della misericordia domenica prossima). La carità attraverso la parabola del Buon Samaritano; la misericordia con le parabole del Figliol prodigo e del fariseo e del pubblicano.
PREMESSA SUL SENSO DELLE PARABOLE
Le parabole sono racconti che Gesù faceva e che volevano arrivare al cuore dell’ascoltatore. La parabola è un’invenzione di Gesù. Gesù è un creatore di parabole, con una capacità di narrare che rendeva efficace il suo messaggio. La narrazione parabolica ha una capacità performativa che le nozioni non sempre hanno.
Le parabole dipendevano dalla sua capacità di aderenza alla realtà materiale, delle cose, delle persone, degli eventi. Gesù vive una presenza nella vita molto aderente alla realtà. Se tu sei interessato, legato a qualcosa, ti soffermi ad analizzare gli aspetti che lo riguardano.
Gesù pensava; se vedeva un albero, lo guardava con un senso ampio; Gesù si esercitava a questo tipo di rapporto molto ampio con le cose. Riusciva a cogliere un dinamismo nella realtà naturale e umana che incontrava. Si dava del tempo per guardare e per pensare. Prima di tutto il suo guardare è poetico, è un guardare per comprendere: come inizia il giorno, come è fatta una casa, come sono coltivati i campi, come sono i prati, i boschi, il ciclo di vita degli alberi, guarda la donna che fa il pane, che usa il lievito, che cerca la moneta, il contadino che semina, i bambini che giocano e danzano nelle piazze...
Sarebbe importante imparare a leggere il Vangelo in modo laico, con uno sguardo umano, perché dell’umanità a Gesù non sfuggiva nulla. Potremmo pensare che Gesù fosse concentrato sulla sua grande missione di salvatore del mondo... non per questo perde i riferimenti importanti alla vita.
Noi occidentali, condizionati dalla cultura greca, siamo abituati a separare il materiale dallo spirituale, il visibile dall’invisibile, ma una stessa realtà, la si può leggere a profondità diverse. Chi frequentava Gesù, era colpito da questo suo modo di guardare la realtà. Un antico detto rabbinico esprime bene come dietro alle cose si nasconde qualcosa di più: “Alza una pietra e dietro vi troverai Dio”.
Parabolè parola greca che significa paragone. E’ un discorso “gettato accanto” (parà ballo). Si racconta una storia per parlare di qualcosa d’altro. Le realtà che riguardano Dio non sono facili da spiegare. Per spiegarle gli esperti usano dei ragionamenti, delle nozioni, ma Gesù non era un filosofo e nemmeno un teologo, era un uomo che viveva e dunque non faceva discorsi, ma portava degli esempi della vita. Sono quaranta le parabole dei Vangeli, per raccontare il regno di Dio e di Suo Padre. Gesù trasmetteva anche un modo di pensare diverso da quello che la gente aveva appreso dai capi religiosi del tempo. E’ per questo che gli scribi (esperti delle Scritture), i farisei (ferventi credenti) e i sacerdoti non sopportavano Gesù. “Essi cercavano di prenderlo, ma ebbero paura della folla; perché capirono che egli aveva detto quella parabola per loro. E, lasciatolo, se ne andarono” (Mc12,12).Le sue parabole apparivano efficaci nell’esprimere una nuova immagine di Dio, contestando le immagini della classe religiosa del tempo. Con le parabole capivano il pensiero di Gesù; erano per la gente un insegnamento dirompente, che portava a cogliere Dio nella concretezza del quotidiano e non relegato in una religione dei precetti vissuti in modo legalistico o formale (questo purtroppo è un’ambiguità presente anche nel nostro agire cristiano, intento a soddisfare il precetto, senza capirne il senso. E’ la stessa cosa che si sta ripetendo ogni giorno con Papa Francesco, che destabilizza un certo pensiero cristiano, per rendere l’immagine di Dio Buona Notizia, non cattiva).
Le parabole narrate da Gesù fanno riferimento a due poli. La maggioranza riguardano la misericordia. Per i capi ebrei la giustizia di Dio non è secondo la misericordia, Gesù dimostra il contrario. Il secondo polo narrativo della parabole è la carità. Gesù dimostra con le parabole che Amare Dio significa Amare il prossimo: sono la stessa cosa. Nell’AT invece l’amore del prossimo era subordinato all’Amore di Dio. Gesù non è d’accordo e afferma che “chi ama Dio, ama il prossimo”.
C’è un terzo polo delle parabole che è la “veglia del ritorno”, ma questo è un tema per l’avvento.
Parabola simbolo della Carità e dell’amore del prossimo è il Buon Samaritano (Luca 10,25-37), davvero centrale per capire il senso della carità. L’insegnamento di questa parabola turba tutti i religiosi (anche un libro di don Primo Mazzolari su questa parabola era stato messo all’indice e ha avuto un richiamo dal Sant’Uffizio romano; sosteneva infatti che anche un comunista potesse essere soccorso)
Prestare attenzione all’ascolto, esercitarsi nell’arte della comprensione è fondamentale per chi vuol essere credente. Chi diventa credente lo deve all’ascolto. Se ascolti una parola affidabile, si accende la fede nel cuore (così è per tutte le parabole ascoltate).
Il primo comandamento che Dio dà ad Israele è lo Shemà Israel, ascolta Israele. L’israelita prega dicendo a se stesso di ascoltare Dio. Anche Gesù ha esortato all’ascolto, ha invitato a fare attenzione a quello che si ascolta, ad ascoltare con un cuore largo, aperto. “Beati quelli che ascoltano la Parola di Dio e la osservano” (Lc 11,28). State attenti voi che avete a disposizione questo dono.
La parabola del Buon Samaritano nasce da una disputa con un sapiente biblico. Un esperto si alzò per mettere alla prova Gesù “Maestro che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Gesù risponde con una contro-domanda. “che cosa c’è scritto nella Torà?” (sottintendendo: tu sei l’esperto e dovresti saperlo). Costui rispose: “Amerai Dio.... e il prossimo tuo come te stesso”. “Hai risposto bene fa questo e vivrai”. Questo confronto è presente in tutti i tre vangeli sinottici (oltre a Luca in Mt 22,34-40 e Mc 12, 28-31). Quelli indicati sono due comandamenti fondamentali e così legati che sono uno solo: da qui dipendono tutta la legge e i profeti; questa è la convinzione di Gesù. Che cosa fare per essere salvati? Come salvare la vita? Il dottore della legge interrogava Gesù per farsi dire quello che già sapeva, eppure voleva verificare se Gesù era fedele alla Tradizione. Dunque Gesù non risponde direttamente alla domanda, ma rimanda al mittente: se tu sei un esperto, dimmelo tu” Gesù non era un Rabbi. Ovviamente Gesù ironizza su di lui e su come interpreta la legge della Torà. Gesù rinvia lo scriba alle sue capacità e lo invita a rifarsi alla scritture, invocando la responsabilità dell’ascolto, cioè la capacità di ascoltare e di farsi responsabile dell’insegnamento ricevuto. Una persona per avere la vita eterna deve mettere in pratica i comandamenti. Gesù sottolinea l’autorità della Parola, ma anche la responsabilità di chi la legge. Si tratta della responsabilità dell’interpretazione che è la maniera unica attraverso cui la Parola passa alla coscienza, al cuore. Andare a Messa per precetto non serve, ma si colloca dentro il senso di vivere la domenica in una logica di “respiro”, per dare spazio alle cose della vita che non hanno a che fare con il lavoro.
Nel comandamento citato ci sono due futuri: Amerai Dio e amerai il prossimo; è un compito che viene affidato, una strada da percorrere; è camminando che si apre una strada, e amando che si ama. Il comandamento dice che inizia la strada dell’amore. Rinnovando l’ascolto, rinnovi l’Amore per Dio e continuerai a crescere nell’amore, con tutta la tua vita, con tutta la tua forza o come si può tradurre: con tutti i tuoi beni; anche i beni che uno possiede possono concorrere alla crescita dell’amore. Se ho dei soldi, posso amare Dio anche con l’uso dei soldi. Il comandamento insiste sulla totalità della vita: Dio vuole un amore totale (non totalitario). Ma questo è il primo passo. Non basta l’amore di Dio. Dio è al primo posto e poi vengono gli altri amori (genitori, sposo/sposa, povero, amico, malato...): l’importante è che Dio vegli su tutti i nostri amori. L’amore di Dio non è in concorrenza con l’amore dei genitori, delle persone, dei figli......
Amerai il prossimo tuo come te stesso. Amerai non in generale tutti gli altri, ma colui che incontri, che sta nello spazio della tua vicinanza.
A volte parliamo di amore all’umanità, ma ha senso? Il senso del prossimo tuo è il riferimento a colui che ti è vicino. E’ la prossimità reale che ci fa vivere l’amore. Oggi è facile illudersi di amare il prossimo; diciamo di amare ma ci stiamo lontani. L’amore del prossimo chiede “mano nella mano, occhio con occhio, volto contro volto...
Attenzione alla comunicazione virtuale, che può essere una perdita di tempo e togliere spazio e tempo all’incontro.
Volere il bene dell’altro così come si vuole bene a se stessi. Quanti inciampi in questo senso! C’è addirittura una logica di perversione dell’amore: a partire dall’amore caritatevole legarsi agli altri, non lasciarli più liberi, pretendere un ricambio... Io voglio il tuo bene? Il mio bene esige che tu ci sia). Per arrivare al dono dell’amore occorre intelligenza, esperienza, pensiero, conoscenza dell’altro. Stando insieme l’uno fa diventare più buono l’altro. Io voglio il bene di me stesso? L’altro rimane l’altro, ma riempito del mio amore. L’amore nostro per il prossimo non la misura, ma il comando.
Questa è la verità dei due amori: amare Dio e amare il prossimo. Che cosa significa amare Dio? Si tratta di un amore obbediente, che nasce dall’ascolto (ob audire). Dio ci ama per primo e io rispondo al suo amore. Gesù dice: “se mi amate osserverete i comandamenti” “Se uno mi ama osserverà la mia parola”. Da qui ne consegue che amare Dio è amare l’altro come Dio lo ama. Se noi ci amiamo gli uni gli altri, il nostro amore in Dio diviene pienezza. Tante volte nei salmi e nella Bibbia si parla dell’amore per Dio (Sl 115): Tu mi ami se ami il prossimo, dice Dio.
“Che cosa sta scritto nella legge?” “Amerai il Signore Dio tuo... e il prossimo tuo come te stesso” Hai risposto bene, riprende Gesù, apprezzando l’accostamento delle due indicazione del Deut e del Lev.: “Fa questo e vivrai”. Gesù è stato soddisfatto della risposta dello scriba; e aggiunge: visto che lo sai, mettilo in pratica. L’esperto vuol sapere, ma non è sufficiente. Conoscere la legge senza realizzarla è una condanna ancora più grave. Non basta una fede ortodossa, esatta, ma deve essere anche vissuta con coerenza (vedi frecciate di Papa Francesco). Se amerai il Signore e il tuo prossimo, vivrai il cammino della vita, verso la sua pienezza. Gesù intende “cerca di dare alla tua vita una dimensione che non può essere vinta dalla morte. Se fai questo cominci a vivere in pienezza già qui in questa vita, non tanto nell’aldilà, ma qui e adesso. Il vivere in pienezza è a portata di mano. Quando uno ama, già vive. Ci preoccupiamo della vita eterna, invece dovremmo preoccuparci di questa vita. Qui è il paradiso. Amando, uno vive. Senza amore, anche se uno vive, è morto, è morto dentro. Quante depressioni sono il segno di situazioni di morte... perché non si ama e non ci si lascia amare dagli altri. Una vita “piena” è una vita d’amore.
L’espero della legge però, volendo giustificarsi, riapre il dialogo con un’altra domanda. “E chi è il mio prossimo?”
“Volendo giustificarsi”: perché fa questo? vuol tirarsi fuori?... In effetti nella cultura giudaica c’era un problema sulla identificazione del prossimo. La domanda dell’esperto è restrittiva, perché vuol restringere il riferimento al prossimo. E’ una domanda detestabile e perversa, in quanto sottende di poter scegliere chi è il prossimo (da amare). Non ha senso. Gesù non risponde direttamente, ma racconta una parabola e infine invita l’esperto a seguire quello che racconta.
La domanda sul prossimo trova luogo nei confronti teologici del tempo. Chi è il prossimo? Il prossimo è costituito soltanto dai famigliari, amici e fratelli nella fede appartenenti a Israele e basta.
Gesù non entra nella casistica della questione. Dice che non è sensata e alla fine della parabola, Gesù ribalta la domanda: “chi ti sembra sia stato prossimo di colui che è stato assalito dai briganti?” In sostanza: “Io a chi mi faccio prossimo? Come vivo la prossimità?”
Entriamo dunque nella considerazione della parabola.
E’ contestualizzata sulla strada, quella che scende da Gerusalemme al Mar Morto, con 900 metri di dislivello. Si parla di un uomo che percorre questa strada. E’ un uomo senza distinzione, senza nome, età, religione, professione, maschio o femmina; si parla di un uomo e basta.
La strada è posta in una zona desertica, dunque facilmente abitata da banditi/briganti che tendevano agguati, proprio perché erano facili i nascondigli e le vie di fuga. Era una strada importante ad Oriente, che collegava Gerusalemme a Gerico e risaliva in Siria, aprendo la direzione verso oriente.
Derubato, malmenato, in condizioni pietose, lasciato mezzo morto è l’uomo che viene assalito. Sofferente, estremamente bisognoso, destinato alla morte, vittima ella violenza... non riesce nemmeno a chiedere aiuto.
Passa un sacerdote che ha svolto il suo compito sacerdotale nella settimana del suo turno. Non si ferma e va oltre.
Così un levita (è un sacerdote di grado minore, una sorta di diacono/sagrista): vede e passa dall’altra parte della strada.
Sacerdoti e Leviti sono riconosciuti nella cultura giudaica “servi del Signore”, persone esemplari per Israele. Sono il clero, esperti di sacra Scrittura e nonostante vedano il pericolo dell’uomo, non si avvicinano, ma addirittura si allontanano per non contaminarsi e condizionare il loro servizio al tempio (retribuito). Erano osservanti, ma più volte la voce del Signore si era fatta sentire dai profeti: fate pure i sacrifici, ma voglio misericordia che sacrifici.
Sacerdote e levita sono i due che si sentivano investiti della volontà di Dio, ma sapevano fare il bene. Non c’è una polemica con la classe sacerdotale, si dice semplicemente “passarono oltre”. Offrono in sacrificio vino e olio ma non sanno usare questi elementi per l’uomo. C’è spesso nell’AT la contraddizione tra volontà di Dio e sua realizzazione (cfr Sir 12,1-7). Qui entriamo nel campo della responsabilità personale di fronte alla Parola, accennata nella prima meditazione. Il sacerdote e il levita non sanno se quell’uomo merita il loro aiuto. Se volessimo sapere chi il prossimo per aiutarlo sarebbe finita, anche noi ci comporteremmo allo stesso modo. Un sacerdote non può toccare un morto o il sangue delle ferite: lo renderebbe impuro... e se fosse un pagano? Non spetterebbe a lui aiutarlo. Servire l’altare presente nei libri delle Cronache è un’azione più santa che servire l’uomo bisognoso. Perché Gesù è così polemico (così come oggi Papa Francesco ce l’ha con i preti...)? L’essere religiosi, addetti al culto può garantire l’accesso alla volontà di Dio? Non, non è così. E’ solo la vita a verificare la pratica della volontà divina. Il sacerdote e il levita vedono un ostacolo e lo evitano. Pensano di sapere già tutto della volontà di Dio e applicano il loro schema. Ecco che arriva il paradosso: invece un samaritano fu preso da viscerale compassione (così come Gesù con il lebbroso) e curò l’uomo mezzo morto con il vino e l’olio, usò i suoi denari per farlo curare alla locanda. Oltre al sac e al levita la parabola parla di un altro passante e lo qualifica come samaritano. Osare dire questo significa sollevare la rivolta contro Gesù.
I samaritani erano esclusi da Israele e ritenuti nemici dei Giudei. Le terre della Samaria non sono mai state conquistate totalmente dal regno di Israele; esisteva una minoranza forte di samaritani, gente spuria, non di razza pura come i giudei...
La storia biblica racconta molti altri condizionamenti dei Samaritani: volevano aiutare a costruire il tempio di Gerusalemme, ma vengono rifiutati e così costruiscono il loro tempio sul Monte Garizim; i giudei che avevano sposato donne samaritane, al tempo di Esdra e Neemia sono costretti a rimandare a casa le loro spose perché ritenute straniere. Anche un sacerdote aveva sposato una donna samaritana e obbligato a ripudiare la moglie, compie la scelta di rimanere con lei e andare ad abitare in Samaria. Un samaritano è un nemico per i giudei (Sir 50,25-26).
Gesù sceglie lo scarto per i giudei, il più disonorevole degli uomini per presentarlo come salvatore, che si da fare per uno che urlava, non chiedeva pietà. Si fa prossimo: gli si avvicina, è commosso profondamente (nelle viscere), gli fascia le ferite, verso olio e vino, lo carica sul giumento andando lui a piedi, lo porta alla locanda, lo fa curare e si impegna con i soldi. Sette verbi per sette azioni. Il Samaritano si è fatto vicino. Occorre la prossimità per la carità. E’ necessario avvicinarsi per capire il bisogno, la prossimità permette la compassione. Quando parliamo o ci avviciniamo a qualcuno in difficoltà subito ci chiediamo: che cosa posso fare per lui?
Questo samaritano non è più buono del sacerdote e del levita... soltanto non si è interrogato su chi era il malmenato. NON SI E’ POSTO LA DOMANDA: CHI E’ IL MIO PROSSIMO: ha agito aldilà di ogni precomprensione. Senza saperlo compie le azioni che Dio compie: salva l’uomo.
L’azione di carità inoltre chiede disponibilità e gratuità. Chi fa il bene non lega nessuno a sé. Il samaritano ha fatto con responsabilità e non ha tenuto vicino l’oppresso. L’altro resta tale, libero e anche il samaritano rimane libero di continuare il suo cammino.
Carità significa volere il bene dell’altro, senza reciprocità, riconoscenza o ringraziamento. L’uomo aiutato, nella parabola, non dice nulla; non sappiamo se c’è stato scambio, dialogo..., ma non è importante!
Infine un’ultima osservazione: in questa parabola non è mai citato il nome di Dio. Il samaritano agisce senza scomodare il nome di Dio. Nessuno ci deve dire come fare la carità. Questa è una parola laica. In questa parabola c’è umanità, compassione, tutto è fatto come se Dio non ci fosse. Il samaritano ha visto un uomo sofferente e ha pensato: “se fossi al suo posto che cosa mi aspetterei?” E’ l’etica umana prima che religiosa! Chi è il vero credente in questa parabola? E’ un eretico scismatico, uno scarto.
Chiede Gesù: “Chi di questi tre si è fatto prossimo/vicino all’uomo in difficoltà?” La risposta era scontata: “ Chi ha usato misericordia verso di lui”. La domanda è ribaltata: “Ma tu di chi ti fai prossimo?”. Il samaritano diventa esemplare: “Va e fa anche tu come lui”. L’insistenza è sul verbo “fare” (Che cosa devo fare?... Fa questo e vivrai...vai e fa lo stesso...). L’amore del prossimo non si basa sull’identità di chi chiede aiuto. La carità non un è compito verso un prossimo con una precisa identità... Non ci si deve chiedere chi è il prossimo, ma ci si fa prossimo. San Francesco quando ha incontrato il lebbroso, davanti a quest’uomo che gli faceva ribrezzo, è caduta ogni barriera. Perla carità non esiste nessuna barriera, nessun muro, nessuna immunità...
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Legale rappresentante Don Riccardo Gobbi