articolo apparso su "Settimananews"

foto Marte

Alcuni eventi presentati al recente Festivaletteratura (Mantova, 8-12 settembre 2021) hanno riguardato l’ambiente e hanno offerto al pubblico interessanti spunti di riflessione sulla situazione attuale. Mi riferisco, in particolare, ad eventi trasmessi in streaming o attraverso Radio Festival.   Più volte è stato citato il recente report del 7 agosto 2021 pubblicato dall’ IPPC (Intergovernmental Panel on Climate Change, Sixth Assessment Report), la più autorevole agenzia mondiale di ricerca che studia i cambiamenti climatici. In effetti è proprio la crisi climatica che oggi stiamo vivendo, sempre più drammaticamente, che ci porta a riflettere sul rapporto uomo-ambiente.

Con l’evento “Geoingegneria Crash Course” il chimico-fisico Emanuele Penocchio, chiarita la differenza tra meteo e clima, ha precisato che la geoingegneria (in particolare l’ingegneria climatica) propone tecnologie su larga scala per contrastare il riscaldamento globale e modificare il clima terrestre, che è determinato dall’inclinazione dei raggi solari e dalla composizione chimica dell’atmosfera. Un noto, e inconsapevole, intervento di geoingegneria è stato compiuto con l’impiego massiccio dei clorofluorocarburi CFC (propellenti spray, fluidi refrigeranti, …) negli anni ’70. Questi composti, molto inerti, una volta arrivati nella stratosfera, hanno la capacità di distruggere molecole di ozono O3 tramite la liberazione di atomi di cloro. Questo comporta una sensibile riduzione dell’ozonosfera, che ha l’importante compito di filtrare i raggi UV provenienti dal Sole (si parla di ‘buco dell’ozono’). Si è cercato di porre rimedio al danno con l’accordo di Montreal del 1987 per la messa al bando dei CFC; questo accordo ha portato dei benefici all’ozonosfera, ma per tornare alla situazione anteriore all’uso di queste sostanze bisogna attendere la fine di questo secolo. Un altro esempio, consapevole, di geoingegneria per diminuire la temperatura media è quello di cercare di aumentare l’albedo, cioè la percentuale di radiazione solare che viene riflessa dalla superficie terrestre. Attualmente l’albedo è mediamente del 38%, ma sta diminuendo per lo scioglimento dei ghiacci, che riflettono la luce. L’idea è quella di imitare ciò che già avviene nelle eruzioni vulcaniche, con grandi immissioni di anidride solforosa SO2 in atmosfera che riflettono la radiazione solare con conseguente raffreddamento della Terra. La cosa è tecnicamente possibile, mediante aerei deputati a immettere la SO2 nella stratosfera. Ma con quali conseguenze? È noto che un aumento di SO2 favorisce le piogge acide e quindi l’acidificazione degli oceani, nonché la diminuzione dello strato di ozono. E poi non si può pensare di cambiare il clima agendo solo su un parametro, cioè la temperatura media terrestre, ma continuando a emettere CO2 come prima. Il clima è una sistema complesso, caotico, estremamente sensibile. Quindi non si può risolvere la questione climatica solo con interventi di geoingegneria, ma il problema deve essere affrontato anche sul piano economico, sociale, politico.

Lo storico Yuval Noah Harari ha definito lHomo Sapiens come un serial killer ecologico. Lo ha ricordato il filosofo Paolo Missiroli nell’evento “Vivere dopo la Terra o vivere nella Terra?”: l’uomo è l’unico essere vivente che è riuscito a trasformare profondamente e anche a distruggere l’ambiente che lo circonda, lasciando il suo marchio indelebile sulla Natura, a tal punto che la nostra epoca è definita Antropocene. Si tratta di una visione negativa dell’antropologia, che però trova riscontro nel mondo attuale. Ma se le cose stanno così che cosa dobbiamo attenderci dal futuro? Una catastrofe ecologica? Può darsi, ma l’uomo possiede anche delle risorse per reagire, adattandosi e mitigando gli effetti dei cambiamenti climatici. C’è chi pensa che una risposta possa venire dalla geoingegneria, con interventi tipo la cattura della CO2 atmosferica. Il rischio è di pensare che ci salveranno solo le risposte tecnologiche, senza mettere in discussione i nostri stili di vita e il nostro modello di sviluppo. D’altra parte alcune popolazioni indigene che ancora sopravvivono, per esempio in Amazzonia, dimostrano che si può anche vivere in sintonia con la Natura, senza distruggerla.

La nostra civiltà si caratterizza anche per la cultura dello scarto. Siamo passati dal rifiuto delle cose scartate al rifiuto che investe le relazioni: parliamo così di Wasteocene per caratterizzare la nostra epoca. Lo sostiene lo storico dell’ambiente Marco Armiero in “Scarti radioattivi” trasmesso da Radio Festival. Il muro che separa la zona pulita dalla zona della discarica è funzionale al mondo pulito. Si creano delle discariche globali che riguardano cose, persone, storie. Le rovine e gli scarti del capitale sono tossiche, come accade nelle terre dei fuochi in Campania e in tante altre parti del mondo. Lo storico si può chiedere se è il caso di riprodurre le narrazioni tossiche oppure se è meglio addomesticarle o negarle. Se è vero che nel mondo prevalgono le relazioni di profitto basate sugli scarti (wasting relationships), tuttavia esistono anche nuove relazioni che producono comunità, basate sui beni comuni (commons). Si possono generare commonings anche dentro la discarica globale. Il riciclo e il riuso degli oggetti scartati sono buone e necessarie pratiche, ma i commons sono la vera alternativa all’attuale modello di sviluppo.

La crisi climatica ci obbliga a prendere decisioni drastiche a livello planetario, e in tempi brevi. La diplomatica costaricana Christiana Figueres, intervistata da Giorgio Vacchiano in “Il decennio della scelta”, ha energicamente sostenuto la necessità di attuare gli accordi della COP21 di Parigi 2015. L’impegno per contrastare la crisi deve partire dai singoli che possono influenzare le decisioni delle amministrazioni e del mondo economico. Occorrono scelte e azioni coraggiose e tempestive, come quelle messe in atto dalla Costa Rica, che ha destinato i fondi per le spese militari all’educazione e alla salvaguardia della Natura, rinunciando all’impiego dei combustibili fossili a favore delle energie rinnovabili. Occorre estendere queste buone pratiche: per farlo bisogna regolamentare le tasse per le emissioni di CO2 ; mantenere l’impegno dei paesi ricchi a versare 100 miliardi di dollari a quelli più poveri, che sono maggiormente esposti alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Queste ed altre decisioni dovranno essere prese alla prossima COP26 (Glasgow, 31 ottobre - 12 novembre 2021). L’IPCC ci ricorda che siamo sull’orlo di un baratro: entro il 2030 dobbiamo ridurre del 50% le emissioni climalteranti; ma la politica è in grado di ascoltare la scienza? Attualmente la UE e in particolare l’Italia stanno lavorando nella direzione giusta, gli USA cercano di recuperare il tempo perso negli ultimi anni, la Cina usa ancora troppo carbone, l’India sta cercando di produrre fonti rinnovabili a basso prezzo… Il cambiamento climatico è la madre di tutte le ingiustizie perché colpisce soprattutto i paesi più vulnerabili e più poveri. Ma nessuno può salvarsi da solo: costruire un mondo vivibile è interesse di tutti i paesi, perché tutti hanno bisogno di buone condizioni ambientali per prosperare.

Sostituire i combustibili fossili non è questione da poco. Il chimico Nicola Armaroli in “Come sostituire il petrolio?” ha ricordato che ancor oggi il mondo dipende per l’82% da fonti non rinnovabili (petrolio, carbone, gas): per tagliare del 50% le emissioni climalteranti entro il 2030 occorre andare con una velocità di riduzione 6 volte superiore a quella attuale. I trasporti incidono notevolmente sul fabbisogno di combustibili fossili: il 50% del petrolio è usato per il trasporto (auto, camion, treni, aerei, navi,…). Confrontando un’auto termica a benzina con un’auto elettrica si può dire che per percorrere 125 km l’auto elettrica impiega 14 kWh di energia, equivalente all’uso di 2 litri di benzina. Un motore elettrico ha un rendimento tra l’80% e il 90%, mentre un motore a scoppio ha un rendimento effettivo di circa il 25%. Il motore elettrico non produce emissioni, al contrario di un motore termico che emette CO2, azoto, ossidi di azoto, monossido di carbonio,… L’auto elettrica utilizza una batteria molto pesante (circa 400 kg), che però dura quanto l’auto e che, a fine vita della macchina, dev’essere presa in carico dalla ditta venditrice; tale batteria viene venduta e riutilizzata per usi statici (pannelli fotovoltaici) e alla fine della sua vita si può ancora recuperare il Litio in essa contenuto. L’auto elettrica richiede poca manutenzione, essendo il suo motore molto più semplice di un motore termico; la batteria si può ricaricare in casa o a contratto da fonti rinnovabili. Invece, un’auto termica, a fine vita, ha consumato in carburante oltre 7 volte il suo peso e ha emesso in CO2 oltre 20 volte il suo peso. Per il riscaldamento si usa generalmente il metano, potente gas serra, che contribuisce notevolmente al global warming. Molte sono le perdite di questo gas attraverso la rete di distribuzione. Utilizzando, invece, una pompa di calore geotermica dotata di sonda che a 100 m di profondità va a contatto con un ambiente a 17°C tutto l’anno, possiamo raffrescare la casa d’estate e riscaldarla in inverno senza bruciare metano o altri combustibili. Ricordiamo che siamo ancora in grado di intervenire sul clima, ma per pochi anni, trascorsi i quali supereremo il punto di non ritorno.

Una delle conseguenze più pesanti del riscaldamento globale è lo scioglimento dei ghiacci. Ne ha parlato a Radio Festival in “Terre rare - Ghiacci” Mariasilvia Giamberini, ricercatrice del CNR, con esperienza lavorativa nella base “Dirigibile Italia” alle Isole Svalbard nel Mar Glaciale Artico. Nella base si svolge un’importante attività di monitoraggio del cambiamento climatico, in una zona dove l’aumento delle temperature è doppio rispetto a quello che si registra mediamente sulla Terra. L’Artico rappresenta un limite che l’uomo tenta di superare, violando la Natura: lo scioglimento dei ghiacci vicino al Polo Nord sta scatenando l’interesse di molti paesi che vedono l’opportunità di sfruttare questo ecosistema a fini estrattivi e commerciali. Pochi sanno, però, che lo scioglimento del permafrost artico potrebbe liberare il doppio della CO2 già presente in atmosfera. Ma gli scienziati non riescono a convincere i governi a prendere le misure necessarie; un risultato migliore forse potrebbero ottenerlo gli economisti o le compagnie assicuratrici, per cercare di fermare la deriva che colpisce soprattutto i più poveri e per sostenere la transizione ecologica.

La questione è stata ripresa dal glaciologo Giovanni Baccolo in “Cosa scompare insieme al ghiaccio” a proposito dello scioglimento dei ghiacci terrestri. I ghiacciai sono vittime del cambiamento climatico; la loro temperatura sta aumentando di più di quella media del pianeta. La loro fusione ha delle conseguenze molto gravi per la vita dell’uomo: l’innalzamento del livello marino - attualmente al ritmo di 3,5 mm all’anno - che mette a rischio intere regioni (in Italia le più esposte sono la laguna veneta e la riviera romagnola); la perdita di grandi quantità di acqua dolce necessaria per la vita (centinaia di milioni di persone dipendono dall’acqua che viene dall’Himalaya). Ma i ghiacciai sono anche un formidabile strumento conoscitivo: con i carotaggi in Antartide è possibile ottenere informazioni sul clima della Terra da oltre un milione di anni fa fino ad oggi. E infine i ghiacciai sono custodi di una cultura che rischia di andare perduta con la loro scomparsa.

Il patrimonio culturale delle montagne è in pericolo anche per lo spopolamento: interi paesi sulle Alpi o sugli Appennini sono stati in larga misura abbandonati. L’allarme viene dal meteorologo e climatologo Luca Mercalli. Negli eventi “Un rifugio ad alta quota” e “Dirti natura” - quest’ultimo con lo scrittore e poeta Andri Snær Magnason - Mercalli ha riproposto le conclusioni del recente rapporto dell’IPCC: nei prossimi decenni avremo un aumento medio della temperatura globale di 2°C, se saremo in grado di ridurre molto le emissioni climalteranti come proposto dagli accordi di Parigi; ma di 4°C e più, se lasceremo le cose come stanno. La proposta del climatologo è molto semplice: per sopportare l’aumento delle temperature può essere una soluzione il trasferirsi in montagna, riattivando vecchie abitazioni abbandonate che i sindaci locali offrono a prezzi stracciati. Le zone montane occupano il 35% del suolo italiano e potrebbero ospitare 5-6 milioni di persone. Inoltre con il telelavoro, che si è diffuso ampiamente con la pandemia, è possibile lavorare anche dalla montagna. È quello che lo stesso Mercalli fa e ha fatto con l’acquisto, in Val di Susa, di una vecchia casa che ha trasformato in una abitazione quasi a consumo zero (casa passiva), con l’uso di pannelli fotovoltaici e opportune coibentazioni. Interventi di questo tipo, incentivati dallo Stato, non comportano consumo del suolo (grave violazione della Natura da parte dell’uomo) e contribuiscono a rivitalizzare zone e borghi in stato di abbandono, in piena sintonia con la sostenibilità. È chiaro che trasferirsi in montagna non risolve il problema ambientale. Siamo di fronte ad un cambiamento epocale avvolto nell’ignoto; le catastrofi che già registriamo - alluvioni, uragani, incendi, siccità, perdita di biodiversità, estinzioni di massa … - sono l’avvisaglia di qualcosa che non conosciamo e che dovrebbe farci paura. Dovrebbe crearsi una tensione che ci prende tutti, come accadde in Gran Bretagna nel 1940 quando lo Stato destinò il 50% del PIL per far fronte al nazismo. Eppure oggi basterebbe che ogni nazione erogasse il 2,5% del PIL - l’equivalente delle spese militari - per dare risposte concrete per salvaguardare l’ambiente e affrontare coscientemente il futuro, per lasciare un mondo vivibile ai bambini di oggi.

udi