FACCIAMO FESTA (MA) NEL SIGNORE
Dio è il responsabile del sepolcro vuoto. La Pasqua mette in rilievo le donne e oggi spicca la figura di Maria di Màgdala che la tradizione chiama l’apostola degli apostoli. È lei la portatrice della bella notizia di Pasqua e lo fa in due momenti successivi. La prima volta non fa altro che passare l’informazione di ciò che ha constato recandosi di buon mattino al sepolcro: la pietra tolta e la tomba vuota. Corre da Pietro e dal discepolo amato e li rende partecipi di un suo sentimento e di una sua interpretazione: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Chi è stato? Il testo non lo dice esplicitamente, ma l’annuncio di Maria sottintende la certezza, tutta nella logica umana, che il cadavere sia stato rimosso. Forse da parte di alcuni suoi discepoli che lo veneravano come santo e che gli sono rimasti fedeli? Forse dai Romani o dalle autorità religiose di Israele per evitare gli strascichi dei fanatici di Gerusalemme che nel giro di pochi giorni hanno inneggiato «Osanna al figlio di Davide!» e subito dopo «Crocifiggilo! Crocifiggilo!»? Non è andata così.
La liturgia pasquale svela chi è il “responsabile” della sparizione del cadavere, un responsabile insospettato poiché ha agito nell’invisibilità. La liturgia mette sulle labbra di Gesù stesso la confessione di questo nome quando nell’Antifona d’ingresso dice: «Sono risorto, o Padre, e sono sempre con te. Hai posto su di me la mano». È il Padre l’autore segreto della risurrezione. È Dio che lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere che non (cfr. At 2,24). Gesù è un uomo affidato a Dio: Dio era con lui. L’apostolo Pietro usa una parola per dire che Gesù apparteneva a Dio: era il suo “consacrato”, Dio se lo era riservato per una missione e a tal fine lo aveva unto con la potenza dello Spirito Santo che penetrando l’umanità di Gesù lo sorreggeva nella missione di «passare beneficando e risanando». Sono i tre verbi con cui Gesù lascia la sua orma nel mondo: passare, beneficare, risanare e per questo è ucciso! Ha dell’incredibile: pare inconcepibile che questa sia la fine di un giusto, ma in realtà è ingenuo immaginare che i buoni siano apprezzati e riconosciuti; anzi, spesso il bene è fastidioso, agisce già come un giudizio agli occhi di chi gli è estraneo. Non dimentichiamo che furono i sommi sacerdoti a consegnare Gesù a Pilato «per invidia» (Mc 15,10).
Ma la Pasqua è la “rivalsa” di Dio che non sopprime i cattivi, ma capovolge i punti di forza: se prima era il bene a soccombere ora è il bene che prevale. Due modi di manifestarsi della Gloria: sulla croce e nella risurrezione «Dio ha risuscitato Gesù e volle che si manifestasse». Facciamo attenzione a questo fatto della manifestazione della gloria di Gesù. Essa rifulge già sulla croce, ma in forma nascosta, nell’apparente sconfitta e umiliazione di un Dio condannato alla morte più infamante. Il centurione però lo riconosce: avendolo visto spirare in quel modo – cioè nel pieno abbandono a Dio – esclama: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!». Nel passaggio dalla morte alla risurrezione la manifestazione della gloria divina cambia. Cristo è innalzato e esaltato alla destra di Dio, è costituito giudice dei vivi e dei morti. Vive nella pienezza di Dio eppure, simultaneamente, è ancora presso gli uomini. Il Risorto non è evaporato dalla storia, non si è smaterializzato. Alcuni testimoni prescelti da Dio hanno mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione. Ha riattivato il rapporto con i suoi amici; certo non è più quello di prima eppure mangia e beve, come un uomo, trasformato e glorificato dallo Spirito immortale, ma sempre un uomo e non un fantasma. La Risurrezione è il grande “fuori-programma” organizzato da Dio per noi uomini, da questo Padre che spesso la Scrittura ci mostra come “bizzarro”, imprevedibile, non gestibile, perché sommamente libero.
Come Dio si è manifestato nella Pasqua di Gesù? Il salmo 117 usa la suggestiva immagine della pietra scartata dai costruttori che è Gesù stesso eliminato dagli uomini per i quali era venuto, respinto fuori dalla storia come sgradito, e la destra del Signore riprende quella pietra scartata e la trasforma nella pietra d’angolo della nuova creazione. È la mano destra di Dio Padre che ha fatto questa “mossa vincente” per il suo Figlio e continua a costruire la storia con gli scartati e gli invisibili. La Pasqua ci dice di lasciar fare a Dio, ma l’uomo non può restare passivo, come mette la sua parte? I Padri della Chiesa rispondevano così: “A Dio spetta il fare, all’uomo il lasciarsi fare”. Il nostro fare è anzitutto un credere: il discepolo amato «vide e credette» e «chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del nome di Gesù». “Apparire”: una manifestazione senza consistenza. Fuori dalla fede il nostro fare diventa un agitarsi. Nella Bibbia accade che le genti sono in tumulto, agitate, si danno un gran da fare e la reazione di Dio è questa: «Ride colui che sta nei cieli» (Salmo 2,4).
L’agitarsi degli uomini è spesso legato al bisogno di mettersi in mostra, di avere una visibilità e riscuotere un consenso, un apprezzamento, la restituzione che il nostro valore è visto e affermato. Siamo immersi in una cultura che rincorre una visibilità malata. La pretesa di non aver bisogno di nessuno è smentita da un prepotente bisogno di apparire. “Appaio dunque sono; se non appaio non sono”. Questo spiega il bisogno compulsivo di postare sui social, di riscuotere dei like, di avere dei follower, persino di mettere a nudo se stessi in qualche confessionale televisivo. Soggiace a questo stimolo ad essere visti la paura di risultare invisibili e dunque di essere pari a “nessuno” all’interno di una società che scommette tutto sull’immagine. E dove ad apparire non può che essere una forma perfetta per conseguenza l’uomo vive nell’ansia di nascondere ogni difetto, fragilità, impotenza che lo diminuisce rispetto agli standard convenzionali. “Nascondersi” per apparire La logica della risurrezione ci salva da questa sovraesposizione superficiale.
San Paolo ricorda ai battezzati che la loro vita «è nascosta con Cristo in Dio». La parte migliore di una persona è invisibile, non è la vetrina dell’apparire che misura il valore di una vita, ma è dove sono riposte le radici del suo “essere”. L’apostolo Paolo parla ai cristiani della loro identità: sono risorti con Cristo e cercano le cose di lassù, dove è Cristo vincitore e Vivente, rivolgono il loro pensiero alle cose di lassù. La risurrezione capovolge le cose: le radici del nostro essere sono in cielo, affondano nel terreno fertile della vita immortale di Dio. Uso ancora una volta l’immagine dell’albero rovesciato: le radici dell’essere sono invisibili, cioè che appare (la chioma e i frutti) manifestano che la vita dei cristiani prende la sua linfa non da cose terrene ed effimere, ma dallo Spirito del Dio Vivente.
La Pasqua non è una festa tranquilla. Stupefatti e incuriositi dall’annuncio di Maria, Pietro e il discepolo amato corrono al sepolcro. Mentre sotto la croce il mondo è parso fermarsi, al mattino di Pasqua comincia la “corsa” per riferire e raccontare agli altri. Il messaggio della risurrezione è contagioso. Anche se c’è una lentezza negli apostoli a rendersi conto bene dell’accaduto: «Non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti». Capita anche a noi credenti di avere la fede in retromarcia oppure in andamento lento, talvolta ancora al passo del corteo funebre del venerdì santo e incapaci di prendere il nuovo ritmo della domenica di Risurrezione, forse proprio perché le radici non sono ancora capovolte in cielo. La risurrezione rischia così di essere un fatto mitico e etereo, privo di consistenza e peso esistenziale. Dov’è l’errore? Nel separare il venerdì Santo dalla domenica di Risurrezione e pensarli in sostituzione: o c’è la croce o c’è la risurrezione, senza connessione tra loro; mentre si tratta di una successione: dove c’è una comincia già l’altra. La vita erompe da dentro la tomba, la luce brilla dalle tenebre che non l’hanno vinta, la gioia viene dalla tristezza sperimentata. La nostra esperienza ci conferma di questo intreccio, di questa mescolanza spesso contraddittoria di morte e vita, di prove e vittorie, di picchi in giù che fanno poi rimbalzare in alto, ma che gradualmente, giorno dopo giorno, contribuiscono a passaggi di livello e ad una stabilità sempre più e meglio radicata verso l’alto. È così che la vita del Risorto si manifesta in noi di fede in fede, passo dopo passo, usando il cambio di marcia, dalla croce alla risurrezione.
Paolo fa una affermazione molto forte, dice che quando Cristo, la nostra vita, si sarà manifestato, allora anche noi appariremo con lui nella gloria. Ritornano i due verbi manifestare e apparire. Istintivamente, come dicevo prima, cerchiamo di apparire, ci misuriamo subito sulla visibilità esteriore e sociale. Rimaniamo illusi che, puntando sull’apparire “qualcuno” agli occhi degli altri, ci verrà attribuita la gloria, il giusto riconoscimento del nostro peso e valore. Ma la vita fa pagare il conto e prima o poi manifesta dove una persona ha riposto le sue radici: se nella vanagloria oppure nella gloria che viene da Dio. E la bilancia è perfetta: «le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne» (2Cor 4, 18). La gloria di Dio ha il peso e la consistenza dell’essere e fa la differenza. Ma «come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?» (Gv 5,44). Il messaggio unitario del triduo pasquale di morte e risurrezione ci suggerisce che per giungere alla manifestazione autentica del nostro essere è necessaria un’inversione: dapprima va curato il nostro essere perché metta radici profonde in ciò che ha peso e valore, sebbene questo avvenga nell’invisibilità come per il chicco di grano caduto a terra che muore a sé stesso per poter mettere radici. Quando poi la nostra vita è nascosta con Cristo, in Dio, inizieranno a manifestarsi i frutti della vita nuova, di una vita nutrita dalla linfa dello Spirito, una vita santa e virtuosa, che giungerà alla sua piena manifestazione proprio nell’apparente disfatta e umiliazione del nostro corpo terreno che muore e acconsente alla sua trasformazione. L’esito sarà la piena glorificazione del nostro essere a immagine del corpo glorioso di Cristo. Giunti a quella meta, la vita di Cristo in noi, che prima si manifestava in maniera nascosta, trasuderà dai corpi spirituali e potremo “apparire con lui nella gloria”. Recuperiamo la capacità di festeggiare celebrando e celebrare festeggiando Il calendario cristiano ritma ancora le feste dell’anno che si esprimono con auguri, banchetti, omaggi, vacanze.
La Pasqua rischia di essere festeggiata senza essere celebrata e la festa stessa perde sapore. Facciamo sì festa, ma nel Signore, come ci esorta San Paolo. Senza la festa liturgica la festa domestica o tra amici tende inesorabilmente a colorarsi di mondanità. La festa umana che mette radici nel limo fertile della fede esprime la sovrabbondanza di leggerezza e bellezza di una vita divenuta simile a un gioco, liberata dalla pesantezza, dall’obbligo di produrre, di essere prestanti, visibili e appariscenti. La festa autentica è spontaneità, fraternità, amicizia; è il nostro “sì” detto alla vita e all’essere che Dio ci ha donato creandoci non come i facchini della vita, ma come i suoi celebranti. Le virtù della serietà, del lavoro indefesso, della corsa competitiva hanno contribuito a spegnere i fuochi della festa. L’uomo che si definisce attraverso la sua razionalità e la sua potenza produttiva ha dato il permesso all’idolo dell’efficienza di atrofizzare le sue facoltà di celebrazione. Ritengo sussista un punto di incrocio tra il declino della festa e l’assenza di Dio in una vita feriale divenuta monodimensionale e grigia. Ma anche certi riti religiosi paludati di serietà e ieraticità perdono qualcosa della freschezza pasquale della liturgia cristiana.
È eloquente il fatto che nella tradizione cristiana la Pasqua, che è “la festa delle feste”, segue a un tempo di quaranta giorni di digiuno e di radiosa tristezza per purificare l’anima dai vizi e convertirla all’Evangelo. Questo rivela come l’ordine della festa nel mondo e nella chiesa funzionano al contrario. Nel mondo viene prima l’eccitazione dei sensi, il piacere a cui segue in genere l’amarezza, l’insoddisfazione, persino il disgusto, viene prima l’intensità della vita a cui segue la tristezza di fronte alla morte. Nella chiesa, al contrario, prima viene l’amarezza, la consapevolezza che siamo polvere e cenere, creature mortali, questo genera il pentimento che sbriciola il cuore indurito e insensibile; poi viene la gioia immensa, calda, l’esperienza di essere perdonati, ricreati, riammessi a festeggiare la vita insieme al Risorto in attesa di essere accolti come ospiti al banchetto di nozze del Regno.
La festa di pasqua è un’anticipazione della festa del Paradiso dove non serviranno più i simboli della festa (il tempio, gli inni, i riti) perché nella Gerusalemme celeste la festa sarà l’essenza delle cose. La vita eterna sarà festa e la festa sarà la vita stessa condivisa con Dio e con il coro di tutti gli “esseri liturgici” che affolleranno la sala nuziale del Regno. Nel Giorno del Signore tutte le cose canteranno, la lode sarà l’essenza stessa delle creature. La Pasqua ci spinge a intonare il Cantico nuovo, il cantico dei redenti, quello che Dio gradisce e si attende da noi: “Il cantore, egli stesso, è la lode che si deve cantare. Volete dire le lodi a Dio? Voi siete la lode che si deve dire. E siete la sua lode, se vivete in modo retto” (Dai «Discorsi» di sant’Agostino, 34, 1-3.5-6). Il segno che siamo risorti con Cristo è che sappiamo festeggiare.
Quando, per la seconda volta, Maria di Màgdala lascia il sepolcro e corre dagli apostoli, finalmente il suo annuncio è completo: non riferisce solamente che il sepolcro è vuoto e il cadavere di Gesù scomparso, ma annuncia: «Ho visto il Signore! e ciò che le aveva detto». La vera notizia della Pasqua è che Gesù ci precede in Galilea e là lo vedremo. Non a Gerusalemme, nella città santa, luogo degli eventi straordinari degli ultimi giorni della sua vita, ma nella regione della Galilea lo vedremo, dove Gesù ha condiviso con i discepoli la vita quotidiana, in riva al lago, sulla barca a pescare, sui monti, sulle strade e tra i villaggi, beneficando e risanando. E il segno concreto che un cristiano condivide la sua vita feriale con al suo fianco il Signore risorto è una caratteristica tipica del suo stile e del suo cuore: la capacità di compassione e di intercessione per ogni creatura vivente. San Serafino di Sarov, uno dei santi russi più amati, salutava in ogni periodo dell’anno i suoi visitatori con queste parole: “Gioia mia, Cristo è risorto!”. Ogni creatura si trasformava per lui in motivo di gioia e di annuncio della risurrezione. Solo se celebrata, la Pasqua è veramente festeggiata e può trasformare la vita in festa.
Vescovo Marco