Luigi Togliani

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Riferimenti

  1. M. Martini, La forza della debolezza, Piemme, 2012 A. Bonora, Dio e l’uomo sofferente, Paoline, 1990 G. Gutiérrez, Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente, Queriniana, 1986

Prova e tentazione

«Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove» (Lc 22, 28). Tentazione: spinta al peccato. Prova: situazione di difficoltà, di afflizione. La tentazione e la prova colpiscono l’uomo, in particolare il giusto, chi cerca di essere fedele a Dio. 1L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? 2Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, 3così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. (Gb 7, 1-3) - L’esistenza è descritta come prova. “Voi siete [rimasti]”: potevate andarvene, ma non l’avete fatto. - Il discepolo resiste, persevera, rimane:   «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto.»     (Gv, 15,7) - Le prove e le tentazioni di Gesù: i 40 giorni nel deserto, l’abbandono, la croce…   «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze:     egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.» (Eb 4,15). - Le prove messianiche, del Regno: coinvolgono la Chiesa. Come Gesù assume in sé ogni prova   dell’uomo, così ciascuno può assumere come proprie le prove che affliggono l’umanità: la   miseria, la violenza, l’ingiustizia, lo sfruttamento, l’odio. - Gesù è con noi nella prova: la affronta insieme a noi. Per il discepolo affrontare la prova è l’unica   garanzia di serenità; non è il rimuoverla, ma il viverla che rende singolare la gioia del cristiano.

Introduzione al libro di Giobbe. Il Prologo

Il libro di Giobbe fu composto tra il 500 a.C. e il 350 a.C. , dopo l’esilio babilonese. Il libro si apre e si chiude con testi in prosa: nel Prologo (cap. 1-2) e in Gb 42, 7-17. La parte centrale è in poesia. Il protagonista, Giobbe, abita a oriente della Palestina, nel paese di Us, forse nel territorio di Edom, da dove provengono i suoi “amici”. Non ci sono riferimenti a Israele. Giobbe è uomo integro, innocente, giusto e quindi esemplare (tam in ebraico); religioso e lontano dal male. Giobbe ha una bella famiglia, è ricco, è stimato (Gb 1, 1-5). A questo punto appare la sfida di Satana davanti a Dio: Satana non nega le qualità e le opere di Giobbe, ma vuole metterne in dubbio la motivazione. Per Satana la religiosità e la bontà di Giobbe non si spiegano senza l’aspettativa della ricompensa: è la teoria della retribuzione, opposta a quella della gratuità. Dio, invece, crede nella gratuità della rettitudine di Giobbe e accetta la sfida. La sfida si articola in due momenti: - Giobbe è privato dei figli, dei servi e dei suoi beni materiali (Gb 1, 13-22); - Giobbe è colpito nel fisico (Gb 2, 1-8). La risposta di Giobbe: ”Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?”. In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra. (Gb 2,10)

Subito dopo appaiono i tre “amici” di Giobbe, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, persone compassionevoli, dotte, che poi gli spiegheranno i motivi delle avversità capitate e lo rimprovereranno in modo sempre più pesante: Elifaz in Gb 4.5.15.22, Bildad in Gb 8.18.25, Sofar in Gb 11.20, suscitando ogni volta le risposte di Giobbe. Interverrà quindi un quarto e giovane interlocutore, Eliu, figlio di Barachele, il Buzita, della tribù di Ram, che confuterà le tesi dei tre “amici” e anche quelle di Giobbe (Gb 32.33.34.35.36.37).

Alcune considerazioni conclusive sul Prologo. - La prova c’è per tutti, anche per le persone più giuste e più pie: bisogna accettarla, non eluderla. - Dio è misterioso: pur conoscendo il Figlio, lo mette alla prova. - Non basta accettare la prova, bisogna incarnarla nel quotidiano. La difficoltà di Giobbe non è tanto quella di accettare di essere privato dei beni e della salute, ma il dover vivere ogni giorno in queste condizioni, il dover resistere alle parole degli “amici”, ai ragionamenti e alle riflessioni che rischiano di farci soccombere nel travaglio della mente e del cuore. - La nostra prova, se accettata, ci può portare a solidarizzare con chi, nel mondo, soffre pesantemente la miseria, l’ingiustizia, la violenza.

Giobbe non sa accettarsi nella prova quotidiana

Giobbe lotta con Dio: maledice il giorno della nascita (Gb 3, 1-10); brama la morte, deluso per l’agire di Dio (Gb 3, 10-19); è tormentato e smarrisce il senso della vita (Gb 3, 20-26). Il grido di Giobbe ha valore perenne, è quello della nostra esperienza quando siamo particolamente provati e forse esasperati. Quando ci poniamo domande del tipo: Perché proprio a me? Che senso ha la vita miserabile di tante persone? Perché c’è la sofferenza degli innocenti? Perché c’è la disabilità, che talvolta colpisce fin dalla nascita? Il grido di Giobbe è fatto proprio dalla Bibbia: è quello di Geremia (Ger 20, 14-18), di molti Salmi, della preghiera di supplica a Dio. Giobbe non cerca un dio più comodo, ma rimane a lottare con Dio; si rifugia presso lo stesso Dio che lo opprime, verso il quale, nonostante tutto, ripone ancora la sua speranza. Alcune considerazioni finali su Gb 3. - Dobbiamo distinguere tra “lamentela”, che esprime irritazione verso gli altri, e “lamentazione”, che è un piangere davanti a Dio. La lamentazione è la preghiera che scuota l’anima, che è capace di far venir fuori il male dalle nostre ferite più profonde, che può liberarci interiormente. - Giobbe è demotivato, svuotato. Capita anche a noi, perché siamo abituati ad agire in virtù delle gratificazioni che riceviamo. Ma è solo quando ci troviamo completamente sguarniti davanti a Dio che possiamo capire che esiste l’amore disinteressato, la gratuità pura. Giobbe grida la sua demotivazione, il suo desiderio di morte; ma lo grida davanti a Dio; continua a cercare e pian piano arriva al più profondo di se stesso. - Dobbiamo accettare ciò che siamo. Giobbe ci aiuta ad accettare noi stessi e gli altri. - Dobbiamo coltivare la perseveranza, pregando Dio assiduamente.

Due teologie a confronto

Una è la dottrina della retribuzione temporale sostenuta da Elifaz, Bildad e Sofar, secondo la quale il malvagio è punito con povertà e malattia, il giusto è premiato con ricchezza e salute. Elifaz dice: 7Ricordalo: quale innocente è mai perito e quando mai uomini retti furono distrutti? 8Per quanto io ho visto, chi ara iniquità e semina affanni, li raccoglie. (Gb 4, 7-8) Quindi se Giobbe soffre allora vuol dire che è peccatore e malvagio e pertanto deve pentirsi. Ma Giobbe non ascolta l’appello Elifaz alla conversione perché non si sente colpevole. I tre “amici”, di

fronte alla resistenza di Giobbe, rincarano la dose e diventano sempre più aggressivi. La dottrina della retribuzione si concilia bene con la vita agiata dei ricchi e aumenta i sensi di colpa dei poveri. In realtà anche Giobbe condivide(va) questa teoria, ma, di fronte alla prova che sta vivendo, ne è sempre meno convinto: non trova in sé peccati che possano giustificare la sua pena e si sente un innocente ingiustamente accusato e colpito (Gb 9, 21). Giobbe inizia a vedere Dio come un giudice che non ha pietà, che non ascolta la sua supplica, che addirittura si accanisce contro l’uomo, giusto o colpevole che sia (Gb 9, 13-35). Giobbe non capisce più chi è, non sa più che cosa sia giusto o no. È il tormento dell’identità. È anche il tormento del genitore o dell’educatore. Sono riuscito a trasmettere qualcosa di buono, i valori in cui credo? Dove e perché ho fallito? Che cosa si aspettano da me? Spesso cerchiamo l’approvazione, il successo, la conformità ad un certo modello rassicurante di famiglia e di società. E se non lo otteniamo, entriamo in crisi. Elifaz accusa Giobbe di mettersi contro Dio e di maledirLo, mentre Giobbe replica dicendo che non rifiuta Dio, ma la teologia della retribuzione perché non rende ragione di ciò che lui sta vivendo (Gb 13, 2-3). Giobbe non vede chiaro, ma ha l’onestà e il coraggio di cercare di comprendere la giustizia di Dio, mentre i tre “amici” preferiscono ripetere i concetti a loro familiari, senza porsi domande sulla sofferenza umana. Giobbe rifiuta una teologia che non tiene conto del dolore e delle speranze degli uomini, che dimentica l’amore gratuito di Dio.

Lottare con Dio

Giobbe lotta contro il disordine della mente, cercando di purificare i pensieri che sembrano giusti, ma che non reggono. E lotta anche con Dio; Giobbe vuole essere benedetto e giustificato, vuole ottenere ciò che desidera e, come in un processo, cerca di perorare la sua causa. 2Dirò a Dio: “Non condannarmi! Fammi sapere di che cosa mi accusi. 3È forse bene per te opprimermi, disprezzare l’opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi? (Gb 10, 2-3) E giunge anche ad affermare che Dio agisce da nemico nei suoi confronti. 16Se lo [il capo] sollevo, tu come un leone mi dai la caccia e torni a compiere le tue prodezze contro di me, 17rinnovi contro di me i tuoi testimoni, contro di me aumenti la tua ira e truppe sempre nuove mi stanno addosso. (Gb 10, 16-17) Deluso e amareggiato, finisce per invocare la morte. 18Perché tu mi hai tratto dal seno materno? Sarei morto e nessun occhio mi avrebbe mai visto! 19Sarei come uno che non è mai esistito; dal ventre sarei stato portato alla tomba! (Gb 10, 18-19) Nella lotta con Dio e con se stesso, Giobbe esprime la sua solitudine, il suo isolamento, il suo forte complesso d’inferiorità.

Il dolore degli innocenti

Giobbe, aiutato anche dai tre “amici”, esce gradualmente dal considerare il suo dolore personale per guardare alla sofferenza del prossimo, del povero, dell’innocente. - Giobbe si chiede perché i malvagi hanno fortuna (Gb 21, 7) e i buoni soffrono (Gb 21, 34). Questo fatto sconfessa la dottrina della retribuzione. - La povertà e l’abbandono hanno una dimensione sociale e spesso non sono frutto della fatalità, ma di scelte fatte da chi detiene il potere. I malvagi risultano nemici dei poveri e negatori di Dio:

2I malvagi spostano i confini, rubano le greggi e le conducono al pascolo; 3portano via l’asino degli orfani, prendono in pegno il bue della vedova. 4Spingono i poveri fuori strada, tutti i miseri del paese devono nascondersi. (Gb 24, 2-4) C’è analogia con situazioni descritte dai profeti: Ger 22, Am 5, Mic 2. I poveri, che sono deprivati e affamati, lavorano producendo per gli altri quello che non possono avere: 5Ecco, come asini selvatici nel deserto escono per il loro lavoro; di buon mattino vanno in cerca di cibo, la steppa offre pane per i loro figli. 6Mietono nel campo non loro, racimolano la vigna del malvagio. (Gb 24, 5-6) Dio ascolterà la supplica del povero e dell’innocente?

L’esame di coscienza di Giobbe

È un lungo monologo di Giobbe che comprende i tre canti dei capitoli 29, 30 e 31. - Il canto del passato e della nostalgia (Gb 29) Giobbe si presenta, con nostalgia, come colui che viveva la gioia di essere amico di Dio. Era nel benessere (Gb 29,6); era rispettato e amato da tutti (Gb 29, 7-10); aiutava chi era bisogno usando il diritto (mishpat) e la giustizia (sedaqáh) (Gb 29, 14-17); era guida e giudice del suo popolo (Gb 29, 20-25). - Il canto del presente e dell’orrore (Gb 30) Ora, invece, Giobbe si trova: umiliato (“si burlano di me”), disprezzato (“Hanno orrore di me e mi schivano”), attaccato (“Hanno sconvolto il mio sentiero, cospirando per la mia rovina”), atterrito (“I terrori si sono volti contro di me; si è dileguata, come vento, la mia dignità”), osteggiato da Dio (“Sei diventato crudele con me e con la forza delle tue mani mi perseguiti”), piangente (“Le mie viscere ribollono senza posa e giorni d’affanno mi hanno raggiunto”) e sofferente (“La mia pelle annerita si stacca, le mie ossa bruciano per la febbre”). - Il canto del futuro e dell’innocenza (Gb 31) È il canto della fierezza. Giobbe si dichiara innocente verso l’impudicizia, la falsità, l’adulterio, la frode, l’ingiustizia (Gb 31, 1-15). Afferma invece: di essere stato caritatevole (Gb 31, 16-23); di non aver abusato della ricchezza e di aver rifiutato l’idolatria (Gb 31, 24-28); di non aver odiato il nemico e di non aver negato l’ospitalità (Gb 31, 29-32); di non essere stato ipocrita e di non aver sfruttato qualcuno (Gb 31, 33-39); di aver esercitato anche una sorta di giustizia ecologica verso la terra (Gb 31, 38-40). Alcune considerazioni finali su Gb 29. 30. 31. - Nemmeno un uomo integro come Giobbe è sottratto alla prova. La prova è insita nel rapporto uomo-Dio perché è un rapporto fondato sulla gratuità. - La prova non è legata alla colpa (come invece lo è nella dottrina della retribuzione), ma è legata alla gratuità delle relazioni libere tra uomo e Dio, proprio quando vengono meno le gratificazioni. - L’accusa dei nostri peccati è finalizzata alla lode verso Dio, è per entrare in alleanza con Lui, è per amore e non per fedeltà a noi stessi. È la ricerca del cuore umano che desidera un raporto con Dio che vada al di là della semplice obbedienza. - L’esercizio del diritto e della giustizia verso il povero è prerogativa di Dio; quindi i poveri non sono destinatari di una punizione, ma dell’amore di Dio.

Pedagogia divina e grido degli oppressi

Nel cap. 32 appare un nuovo personaggio, Eliu; un giovane che ha seguito gli interventi precedenti e che ora prende la parola per insegnare, giudicare (Gb 32, 17-20), difendere la dottrina corretta (Gb 33, 31-33), senza tener conto delle sofferenze di Giobbe. Eliu sottolinea che «Dio, infatti, è più grande dell’uomo»; pertanto è da stolti mettersi contro di Lui (Gb 33, 12-13). Le Sue vie sono difficili da capire. La sofferenza rientra nel piano della provvidenza divina: non sempre è un castigo, ma può avere una funzione pedagogica (Gb 33, 14-19). Secondo Eliu il litigio di Giobbe con Dio è irrispettoso e assurdo perché, nel solco della tradizione profetica, Dio fa giustizia al povero (Gb 36, 6), Dio è imparziale (Gb 34, 19) anche se ha una preferenza verso i poveri oppressi dai potenti (Gb 34, 24-28) e ascolta il grido degli oppressi (Es 3, 7). L’esperienza dolorosa ha fatto capire a Giobbe che uscire da se stesso e aiutare gli altri che soffrono, senza aspettare di aver prima risolto i propri problemi, significa trovare una strada verso Dio. La solidarietà con gli emarginati darà forza alla richiesta di Giobbe di avere una spiegazione sul rapporto tra Dio giusto e la sofferenza dell’innocente.

La risposta di Dio

Nei capitoli 38 e 39 del libro è riportata la risposta di Dio alle accuse di Giobbe. Vengono poste numerose domande retoriche che mettono in risalto l’immensa bellezza della creazione, opera di un Dio che si prende cura della natura, dell’universo e dei suoi abitanti. 4Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! (Gb 38, 4) 33Conosci tu le leggi del cielo o ne applichi le norme sulla terra? 34Puoi tu alzare la voce fino alle nubi per farti inondare da una massa d’acqua? (Gb 38, 33-34) 26È forse per il tuo ingegno che spicca il volo lo sparviero e distende le ali verso il meridione? 27O al tuo comando l’aquila s’innalza e costruisce il suo nido sulle alture? (Gb 39, 26-27) Appare la miseria dell’uomo quando pretende di insegnare a Dio che cosa deve fare. Pertanto: - Nonostante gli immensi progressi fatti dall’uomo in campo scientifico, dobbiamo accettare di conoscere poco dell’universo e del suo futuro. Sapienza è accettare i nostri grandi limiti e affidarci a Dio per quanto riguarda la conoscenza del mondo e di noi stessi. - Sapiente è l’atteggiamento di chi è attento a rispettare la natura, troppo spesso considerata area di libero saccheggio e di arbitrario sfruttamento da parte dell’uomo. - Il futuro della Chiesa e del mondo è nelle mani di Dio. A noi è chiesto di collaborare umilmente al progetto divino, con la libertà di chi cerca di correggere i propri errori. - Dobbiamo nutrire una riverenza amorosa verso il mistero. Se spesso le dottrine economiche e politiche non riescono né a togliere né ad attutire gli squilibri sociali e naturali, questo non deve farci disperare, perché l’universo è guidato in modo misterioso da Dio. Anche Giobbe, attraverso la prova, giungerà a capire l’importanza di abbandonarsi al mistero, nell’amore paziente e perseverante.

Il termine del cammino

Dopo la risposta di Dio, Giobbe riconosce umilmente di aver parlato a sproposito. 3Giobbe prese a dire al Signore: 4«Ecco, non conto niente: che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca» (Gb 40, 3-4)

Giobbe riconosce che il mondo, la storia, ogni singola persona sono parte di un mistero grande noto solo a Dio. 1Giobbe prese a dire al Signore: 2«Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. 3Chi è colui che, da ignorante, può oscurare il tuo piano? Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo. 4Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu mi istruirai! 5Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. 6Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere» (Gb 42, 1-6) L’espressione «nessun progetto per te è impossibile» ci riporta al «Nulla è impossibile a Dio» dell’Annunciazione a Maria (Lc 1, 37) e a «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» dopo l’incontro di Gesù col giovane ricco (Lc 18, 27). Gb 42, 5 esprime l’atto di fede più alto: Giobbe conosceva Dio dalla teologia e dai libri, ma era una conoscenza incompleta, forse fuorviante. Ora, invece, i suoi occhi sono colpiti direttamente dalla luce divina: Dio lo si ascolta, lo si contempla, lo si adora. È una disposizione affettiva che, sottomettendo l’uomo al mistero di Dio, dà la possibilità di conoscere veramente Colui da cui tutto deriva e al quale tutto ritorna. Dio preferisce l’atteggiamento di Giobbe a quello dei suoi “amici”: 7Dopo che il Signore ebbe rivolto queste parole a Giobbe, disse a Elifaz di Teman: «La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe. 8Prendete dunque sette giovenchi e sette montoni e andate dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi. Il mio servo Giobbe pregherà per voi e io, per riguardo a lui, non punirò la vostra stoltezza, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe». (Gb 42, 7-8) Giobbe è giunto finalmente all’obbedienza della mente, all’umiltà, all’amore, alla fiducia e all’abbandono. Senza pretendere di sapere tutto, può raggiungere una conoscenza del mistero ben più profonda di quella che si può ottenere con la sottigliezza dei ragionamenti (Martini, p. 115). Il lieto fine del libro (Gb 42, 10-17) ci dice che il male e il dolore non hanno l’ultima parola; la legge della retribuzione è sostituita da quella dell’amore gratuito (Bonora, p. 128). Giobbe non è tanto l’uomo della pazienza, quanto un credente ribelle; ribelle contro la sofferenza innocente, contro la teologia che la giustifica e contro l’immagine di Dio che esce da questa teologia. Giobbe è anche il credente della pace, che porta alla contemplazione di Dio; una pace profonda, che si coniuga con la richiesta di giustizia (Gutiérrez, p. 57).

Signore, fa’ che io possa guardare in faccia alle mie prove,

rendermi conto di come le affronto,

pormi in maniera giusta per superare quelle della mia gente,

nella consapevolezza di partecipare alle prove

di tutta la Chiesa, della nostra Diocesi, dell’umanità

in questo momento cruciale della storia del mondo.

Amen