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Discorso alla città
MARCO BUSCA
Alle Autorità che rappresentano le istituzioni statali, regionali, provinciali e del Comune della città; alle Autorità militari presenti; ai rappresentanti del mondo del lavoro, dell’agricoltura e dell’impresa in tutta la sua articolata realtà; del mondo dell’associazionismo e della cooperazione; ai cittadini mantovani che hanno voluto intervenire a questo momento aperto a tutti che ho desiderato proporre nel giorno di Sant’Anselmo; a tutti voi porgo il mio saluto di benvenuto e di cordiale accoglienza nella sede del nostro Seminario diocesano.
La festa di Sant’Anselmo, oltre a un significato religioso, ha anche una valenza civile: Anselmo, infatti, è sì il patrono principale della Chiesa mantovana, ma è pure il patrono della città di Mantova. La diocesi da sempre, ai tempi del Vescovo Anselmo come anche oggi, cammina assieme alla gente mantovana.
La parola “città” racchiude in sé dei significati profondi. Basti pensare che essa deriva dall’analogo latino civitas, e deriva dalla stessa etimologia di civiltà. Pa-rimenti la polis greca era quell’insieme di individui e famiglie che nell’età classi-ca era tenuto unito da vincoli umani, religiosi, economici e di altra natura.
Ogni città ha una propria identità, che la contraddistingue e la rende “origina-le” rispetto ad altre. Così è anche per la città di Mantova, con la sua storia seco-lare, i monumenti che evidenziano una straordinaria ricchezza d’arte provenien-te dal passato, l’intensità delle relazioni umane tra le persone. Qui, forse più che altrove, il presente si intreccia spesso con il passato e assume dei contorni speci-fici, tant’è che è stato coniato un neologismo, a tutti ben noto: “mantovanità”.
Oggi ogni identità deve sapersi coniugare con delle motivazioni a carattere ideale e, al tempo stesso, sapersi proiettare verso il futuro, affinché vi siano le condizioni per poter offrire a ogni cittadino delle prospettive positive di vita. Pensiamo soprattutto ai giovani, che, in questo momento, sono la categoria più penalizzata dalla crisi economica. Ma pensiamo anche alle fasce più deboli della società – disoccupati, famiglie numerose, anziani, disabili, immigrati –, nei cui confronti la crisi ha avuto delle ripercussioni altrettanto negative.
Mentre immaginavo i contenuti da proporre in questa mia riflessione a sfondo civico – tesa a unire lo spirito ideale alla concretezza –, mi è parso importante ri-cordare che, in questo 2017, ricorre il 70º anniversario dell’approvazione del te-sto definitivo della Costituzione italiana. La data dell’approvazione è il 22 di-cembre 1947, quando il testo giunge all’Assemblea Costituente, per il voto finale appunto, dopo un iter che aveva coinvolto quell’organismo quasi per un anno intero. Poi, com’è noto, la Costituzione è entrata in vigore il 1º gennaio 1948.
La Costituzione è il risultato dello sforzo comune di più culture politiche: la cultura liberale, cattolica e socialcomunista. Il testo porta la firma di tre autorità: il capo dello Stato Enrico De Nicola, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e il presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini. Non si tratta solo di tre personaggi di grande spessore istituzionale, ma pure dei rappresentanti di tre visioni della vita politica del popolo italiano che sono confluite nella nostra Carta. A tale proposito, ha affermato molto opportunamente Giuseppe Dossetti, membro autorevole dell’Assemblea: «La nostra Costituzione, malgrado tutte le sue imperfezioni, poté elevarsi alla dignità di un vero patto nazionale, in cui sono confluite le tre grandi tradizioni politiche del nostro Paese: quella liberale, quella cattolica e quella socialcomunista» (G. DOSSETTI, I valori della Costituzione, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 2005, p. 21).
A noi, oggi, quel risultato appare sorprendente, un “piccolo miracolo” e in parte lo è. Ma per comprenderne l’esito, occorre calarsi nella temperie dell’Italia uscita dalla Seconda guerra mondiale: un Paese in ginocchio, dal punto di vista materiale e morale, devastato da un conflitto che era costato all’Italia oltre 472.000 morti. Si avvertiva perciò, nell’Italia che portava con sé le ferite profonde della guerra, il desiderio di voltar pagina rispetto al fascismo e alla monarchia, di ricostruire il Paese materialmente e moralmente, di proiettarlo verso un futuro di libertà e democrazia in un’ottica repubblicana. Ed è per questo che, in vista del bene comune della nazione, le forze politiche hanno trovato la dete-minazione di mettere insieme i contenuti ideali e programmatici, che sono alla base in particolare dei “princìpi fondamentali” (dall’articolo 1 al 12) della Costituzione. Quello sforzo di collaborazione – «un vero patto nazionale», come lo ha definito Dossetti – ha certamente molto da insegnare anche a noi, oggi per il suo carattere “conciliante”. Per la Costituzione, la cultura liberale ha dato il proprio apporto per quanto riguarda l’affermazione dei fondamentali diritti della libertà che lo Stato deve riconoscere a ciascun cittadino e dell’iniziativa privata; la cultura socialcomunista – attenta soprattutto ai diritti della collettività – ha insistito sui doveri dei singoli ed ha inserito i valori dell’uguaglianza e della solidarietà, intesa come protezione nei confronti dei lavoratori e dei ceti meno abbienti; la cultura cattolica, a partire dal concetto di “persona”, cercò di mediare tra i diritti individuali e i doveri verso lo Stato, richiamando il valore delle formazioni sociali intermedie, come la famiglia. I costituenti hanno dato alla Costituzione un impianto di tipo liberale, inserendovi molte integrazioni in senso solidaristico. Essi, nel realizzare il testo, pur salvaguardando le garanzie di matrice liberale già previste dallo Statuto albertino, le hanno estese per assicurare i fondamentali diritti civili, politici ed economici anche ai ceti più deboli.
Dalla Costituzione emerge uno Stato sociale, il quale riconosce e accetta l’iniziativa privata sul piano economico e, al tempo stesso, si dichiara disponibile a intervenire per migliorare le condizioni di vita e di lavoro della popolazione. La nostra Costituzione è il frutto di un “compromesso”: di primo acchito il ter-mine non aggrada, ma risalendo al suo significato etimologico “nobile”, di alto livello, un impegno assunto dalle diverse anime politiche italia-ne che hanno saputo fondere – senza confondere – i loro orizzonti valoriali in vista del bene comune del Paese. Scriveva, a questo proposito, un altro importante “padre costituente”, Giorgio La Pira: «La Costituzione si presenta come uno strumento giuridico storicamente adeguato: cioè come uno strumento proporzionato a quella realizzazione di un ordine sociale nuovo al quale dovrà tendere, con tutte le sue energie, il Parlamento futuro» (G. LA PIRA, La casa comune. Una Costituzione per l’uomo, Cultura nuova editrice, Firenze 19962, p. 286).
Mi permetto di soffermarmi sul contributo che diedero i costituenti cattolici. Costoro erano formati alla scuola del personalismo di stampo francese, che so-prattutto grazie alle riflessioni di Maritain e Mounier, aveva assunto e declinato in chiave sociale il concetto teologico di “persona” giudicandolo capace di co-niugare le due istanze della libertà e della giustizia. Per un verso la persona è soggetto dotato di dignità intrinseca che non può essere assorbita né tantomeno annullata da nessuno Stato, dall’altro la persona non è un individuo isolato ma è un’esistenza che si intreccia con altre esistenze; la persona è essenzialmente rela-zione, il vivere è un convivere, e per conseguenza il soggetto non è solo titolare di diritti individuali ma ha al contempo dei doveri sociali così che anche gli altri soggetti si sentano riconosciuti nei loro diritti. L’ispirazione di fondo della no-stra costituzione è, dunque, la centralità della persona come essere in sé ed essere in relazione: mi pare che questo sia il principio basilare e intramontabile che non può essere abbandonato perché è una delle acquisizioni di fondo della nostra ci-viltà, per affermare il quale moltissimi italiani hanno sacrificato le loro vite.
Come ben sappiamo i primi dodici articoli – quelli riguardanti i “princìpi fondamentali” – hanno un valore permanente: su di essi si fonda la nostra convivenza nazionale. Vorrei soffermarmi sull’articolo 1, il cui primo comma recita: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Ciò significa che l’Italia accoglie, come base del vivere democratico, il lavoro e ne indica la su-prema importanza, ponendolo a garanzia dell’affermazione di libertà e uguaglianza contenuta nell’ attributo “democratica”. L’articolo 1 si allaccia a quanto viene affermato nell’articolo 4: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Il contenuto di questi articoli assume una risonanza particolare alla luce dell’odierna difficile situazione economica che sta attraversando il nostro Paese e, nell’ambito lavorativo, la stessa città e la provincia di Mantova.
Il tema del lavoro è complesso e comporta una gamma di questioni: non solo la mancanza di lavoro, ma anche la scarsa qualità del lavoro in quanto precario o sottopagato comunque non retribuito in modo contrattualmente corretto.
Perché il lavoro dev’ essere una priorità nell’agenda di chi ha responsabilità pubbliche? Perché la disoccupazione è una piaga sociale che allarga il numero degli “ultimi”. Voglio citare, a riguardo, ciò che affermava uno straordinario sacerdote che ha operato in terra mantovana, don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo dal 1932 alla morte, avvenuta nel 1959. Il 28 marzo 1947, mentre era in corso il dibattito all’Assemblea Costituente, don Mazzolari, sulle colonne del quotidiano “L’Italia”, scriveva: «La Costituzione è buona quando ci stanno dentro tutti i cittadini e prima di tutti coloro che non avendo la tutela del denaro o del sapere o della forza, hanno diritto di trovare nella legge il loro naturale presidio. […] La Costituzione la sento come il baluardo dell’ultimo, il suo appello. Qualora non rispondesse a tale funzione, a che servirebbe? Ecco perché non le domandiamo di darci il domani con il rischio di dimenticare l’uomo di oggi, il quale ha tanto bisogno di essere saldato, proprio come uomo, nella sua naturale condizione di ultimo. I primi purtroppo sono già muniti. Domandando la tutela degli ultimi, non si esclude né si fa torto a nessuno. Infatti, non si domanda un privilegio, ma un po’ d’eguaglianza per impedire che chi non ha che i doni concessigli da Dio, non si trovi in continuo pericolo di perderli» (P. MAZZOLARI, Scritti politici, a cura di M. TRUFFELLI, Dehoniane, Bologna 2010, pp. 414-415).
Nell’attuale momento storico, contraddistinto dalla crisi economica, ritengo che ogni sforzo, da parte delle istituzioni, delle forze sociali e del mondo im-prenditoriale, debba essere teso a migliorare le condizioni degli “ultimi”, di co-loro cioè che stanno pagando le conseguenze della crisi con la perdita o la preca-rizzazione del proprio lavoro. Al tempo stesso occorre concentrare gli sforzi af-finché si creino nuove opportunità di lavoro, nuovi insediamenti produttivi in vari campi, per poter offrire ai mantovani la possibilità di una vita dignitosa e di un futuro migliore, in particolare ai giovani.
Fra gli altri discorsi di Papa Francesco sul tema del lavoro, uno di quelli certamente più significativi è stato da lui pronunciato il 20 marzo 2014, ai dirigenti e agli operai delle acciaierie di Terni. «Che cosa possiamo dire di fronte al gravissimo problema della disoccupazione che interessa diversi Paesi europei?», si era chiesto Francesco. E di seguito viene la riposta: «è la conseguenza di un sistema economico che non è più capace di creare lavoro, perché ha messo al centro un idolo, che si chiama denaro!». Il papa, di seguito, invita tutte le forze coinvolte a fare uno sforzo di immaginazione teorica e di strategia pratica per favorire un’economia solidale, dice: «i diversi soggetti politici, sociali ed economici sono chiamati a favorire un’impostazione diversa, basata sulla giustizia e sulla solidarietà. […] Il lavoro è un bene di tutti, che deve essere disponibile per tutti. La fase di grave difficoltà e di disoccupazione richiede di essere affrontata con gli strumenti della creatività e della solidarietà. La creatività di imprenditori e artigiani coraggiosi, che guardano al futuro con fiducia e speranza. E la solidarietà fra tutte le componenti della società, che rinunciano a qualcosa, adottano uno stile di vita più sobrio, per aiutare quanti si trovano in una condizione di necessità. […] Se ciascuno farà la propria parte, se tutti metteranno sempre al centro la persona umana, non il denaro, con la sua dignità, se si consoliderà un atteggiamento di solidarietà e condivisione fraterna, ispirato al Vangelo, si potrà uscire dalla palude di una stagione economica e lavorativa faticosa e difficile».
Come purtroppo sappiamo, la crisi si è fatta sentire pesantemente anche sul territorio mantovano: tra il 2009 e il 2016 sono state chiuse oltre 2.200 aziende, soprattutto nell’edilizia, nel settore manifatturiero e nell’agricoltura. Nel 2015, più di 3.000 cittadini hanno perso il lavoro e 1.023 persone sono partite dal Man-tovano, immagino soprattutto giovani che cercano altrove un lavoro stabile su cui impostare il proprio futuro.
Il problema della disoccupazione si fa particolarmente rilevante nel caso dei co-siddetti “NEET” ovvero giovani inattivi, che rappresentano una delle più gravi emergenze etico-civili anche nella nostra provincia. Da questa emarginazione produttiva nascono non solo le forme conclamate esterne e quantificabili di di-sagio ma pure tutte quelle difficoltà di carattere psicologico e umano che rendo-no più difficile lo sviluppo della personalità e, talora, sono il terreno di coltura di molteplici forme di trasgressione e di devianza sociale. Quello della disoccu-pazione giovanile è un disagio potenziale e reale che ci coinvolge e ci interpella tutti, come società civile e anche come Chiesa, almeno sotto un duplice profilo: nei suoi risvolti etico-sociali e in quelli educativi. Sotto il profilo educativo le giovani generazioni ci chiedono maggiore vicinanza umana diretta, c’è bisogno di far parlare, di ascoltare, di entrare in dialogo coi giovani per andare alla radi-ce di certi disagi che poi scoppiano, magari a riguardo della questione lavoro, di fronte a momenti di attesa frustrante o di porte che si chiudono.
Il lavoro non può essere circoscritto alla dimensione semplicemente economica – seppure importante –, perché svolgere un’attività professionale consente alla persona di sviluppare la sua interiore dignità, la sua creatività, le sue abilità, la sua corresponsabilità sociale, tutte caratteristiche che concorrono al raggiungi-mento della sua maturità. La dignità dell’uomo è collegata al lavoro. Inoltre, il lavoro, nel suo significato cristiano, è partecipazione dell’uomo all’opera creatri-ce di Dio e a quella redentiva di Gesù Cristo.
Sul tema del lavoro giovanile Papa Francesco è tornato di recente, il 31 dicem-bre 2016, parlando in modo specifico dei giovani senza lavoro, dicendo che la no-stra società ha un «debito» verso di loro, «perché lentamente li abbiamo emargi-nati dalla vita pubblica obbligandoli a emigrare o a mendicare occupazioni che non esistono o che non permettono loro di proiettarsi in un domani. Abbiamo privilegiato la speculazione invece di lavori dignitosi e genuini, che permettano […ai giovani] di essere protagonisti attivi nella vita della nostra società». «Se vogliamo puntare a un futuro che sia degno di loro, potremo raggiungerlo solo scommettendo su una vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale». Sono questi i temi su cui si interrogherà la Chiesa italiana nella prossima settimana sociale a Cagliari. Le riflessioni che papa Francesco e la chiesa italiana propongono mi auguro siano di aiuto anche per la società mantovana, sollecitata a saper mettere il lavo-ro al centro delle proprie priorità. Senza lavoro non c’è futuro, senza lavoro la stessa convivenza civile e democratica può uscirne compromessa.
Colgo l’occasione di questo incontro per ringraziare di vero cuore tutti voi, cari mantovani, per l’accoglienza che mi avete riservato in questi primi mesi del mio ministero episcopale, a partire dai rappresentati delle istituzioni a tutte le realtà cittadine e della provincia e a ogni singolo mantovano. Quando mi chiedono come mi trovo a Mantova rispondo che i mantovani mi facilitano il compito…ed è vero! In questi primi mesi l’attività a cui ho riservato la precedenza assoluta è stato l’incontro con le persone, con i gruppi ecclesiali, le molte associazioni dalle diverse fisionomie e finalità sociali, culturali, economiche che rappresentano un “capitale sociale” da valorizzare anche per il momento dell’analisi dei problemi che affliggono la società mantovana e non solo nel prendersi cura di essi.
In questo periodo ho potuto apprezzare le qualità della gente mantovana, l’amore per la sua città, il senso civico dei mantovani. Soprattutto ho ammirato la buona umanità che emerge nella solidarietà fattiva. Penso alla grande forza che rappresenta il volontariato organizzato per la società mantovana. La banca dati del Centro Servizi del Volontariato Mantovano elenca, al luglio 2015, 672 associazioni iscritte all’albo provinciale con un rapporto di una associazione ogni 617 residenti per tutta la provincia. Altre 191 sono censite dal CSVM come associazioni non iscritte e gruppi informali. Penso alla mobilitazione della soli-darietà sociale che i mantovani hanno saputo esprimere a favore delle popola-zioni del centro Italia colpite dal sisma, anche attraverso i canali informali del passaparola spontaneo (ora facilitato dai mezzi informatici) come, ad esempio, quello attivato da alcuni agricoltori che sono intervenuti con urgenza racco-gliendo le disponibilità del territorio e trasferendo gli aiuti direttamente a chi ne aveva necessità nelle aree terremotate.
Cari mantovani, il vescovo è la guida della comunità cristiana ma è anche un amico della città e un uomo di pace. La chiesa diocesana che rappresento, con le sue potenzialità e i suoi limiti, continuerà a operare nei campi che sono propri alla sua missione interfacciando buona parte delle sue attività educative e di so-stegno alle povertà all’impegno intenso ed efficace delle istituzioni civili – in primis i Comuni e la Prefettura – e di quelle militari, delle forze dell’ordine, di si-curezza e vigilanza, delle istituzioni culturali e accademiche, delle organizzazio-ni sociali, cooperative, commerciali e imprenditoriali.
Nello spirito della nostra Costituzione mi pare di poter dire che anche per noi qui a Mantova la carta vincente sarà il desiderio di “compromesso”, cioè di un patto nobile, affinché tutte le istanze sociali possano convergere sui valori fondamentali del nostro convivere e trovare ispirazione e vie pratiche di soluzione alle sfide del nostro tempo. Apprezzando il ruolo dei corpi sociali intermedi (famiglie, parrocchie, libere associazioni, cooperative, enti locali) possiamo sperare si realizzi un’accoglienza dignitosa degli immigrati che fuggono dalla guerra e dalla fame e una loro inclusione attenta nella nostra cultura e nella nostra realtà sociale, la promozione di attività professionali e dell’impresa, la piena valorizzazione della donna, la trasmissione di una passione civile per il bene comune alle giovani generazioni non ancora sufficientemente coinvolte nella politica attiva.
Cari mantovani la convivenza democratica è cosa indispensabile ma assai complicata e delicata e acquista tutto il suo significato se basata sull’ amicizia civile. Mi permetto di ricorrere a questa categoria perché – anche sul vasto piano po-litico nazionale – mi pare che il puro gioco delle maggioranze e delle minoranze non possa bastare, così come non possono bastare, seppur necessari, gli accordi politici. Occorre che la dialettica, il confronto tra posizioni diverse, si viva anche nell’amicizia, nel comportarsi lealmente e nello sforzo di comprendere gli argo-menti di tutti quanti sono coinvolti nella vita sociale. Amicizia che non può ridursi ad affinità elettiva o a una unione di parte ma che è espressione della serietà dell’impegno di tutti e in particolare di quanti, con differenti responsabilità sociali e amministrative, operano consapevolmente a servizio del bene di tutti i cittadini.
Grazie